“Per colmare il baratro che ormai la separa dalla realtà, la Facoltà di Architettura deve essere attraversata da una scossa, un fremito che si rifletta in trasformazioni profonde nell’organizzazione e gestione della didattica”. A dichiararlo è il prof. Massimo Pica Ciamarra – “da oltre cinquant’anni partecipe, in varie forme, alla vita di questa Facoltà”, nonché di frequente coscienza critica – in un documento redatto in occasione dell’ultimo Forum sulla didattica tenutosi lo scorso 17 marzo e letto alla folta platea, quel giorno stesso, dal prof. Alessandro Baratta, coordinatore della Consulta didattica di Facoltà. Una testimonianza racchiusa in un paio di pagine che, senza vis polemica alcuna, cerca di fare il punto sulla qualità della didattica e di proporre, contestualmente, spunti concreti per sperimentare soluzioni diverse.
“Oggi siamo fuori dal mondo – afferma il docente – Frammentazione dipartimentale, moltiplicazione di corsi di laurea a vario livello, diversificazioni formali in ogni accezione: il lento vortice delle riforme non ha colto le specificità didattiche della Facoltà di Architettura, che dovrebbero piuttosto sostenere creatività, dovrebbero formare la produzione, valutazione critica e analisi di ipotesi di trasformazione degli ambienti di vita”. Secondo Pica Ciamarra, i mutamenti dello spazio coinvolgono ambiti disciplinari diversi “che esigono di essere legati in azioni unitarie”. “La Facoltà – prosegue l’architetto – continua ad illudere i suoi studenti che un progetto sia il frutto di un’unica persona. La progettazione è un’attività collettiva, non certo di un singolo individuo”.
Integrazione, per Pica Ciamarra il primo passo per ogni azione progettuale: “l’architetto deve cercare soluzioni capaci di rispondere contemporaneamente ad esigenze diverse. Progettare significa affrancarsi da logiche di settore: è l’azione di specialisti diversi coinvolti in un comune sentire. È fondamentale, quindi, che i campi disciplinari ed operativi che si sono andati separando per motivi di natura politica, burocratica o accademica si riunifichino e s’intersechino nel momento progettuale”. “Perché – sottolinea il docente – prima che “soluzione”, il progetto è “tentativo”: progettisti consapevoli sanno che ogni proposta nasce per confrontarsi con altre soluzioni allo stesso problema”.
“Ai futuri architetti – prosegue – dovremmo quindi saper spiegare perché il progetto sia azione collettiva; perché sulle leadership prevalgano – positivamente – le partnership; perché, assunto il metodo del confronto come strumento della collettività per ottenere qualità, il progetto è tentativo prima che soluzione di un problema. Dovremmo saper spiegare la differenza sostanziale che intercorre tra progetto di architettura e progetti di prodotti che prescindono dal luogo”.
In altre parole “nell’organizzare e gestire la didattica, occorre riflettere su come, concretamente, possiamo trasformare i singoli approfondimenti disciplinari da settoriali in interattivi; su come articolare insegnamenti tesi a sviluppare capacità autodidattiche, in grado cioè di formare al ‘saper vedere l’architettura’”. Non solo, “diventa altrettanto importante che gli studenti sviluppino la comprensione degli aspetti sociali, economici, giuridici e procedurali del fare architettura”.
Già, ma in che modo? Attraverso laboratori compatti, per esempio. “Ho sempre insegnato agli studenti dell’ultimo anno – ammette Pica Ciamarra – Per la prima volta quest’anno sono stato spostato sui laboratori. Ebbene, ho potuto constatare come questi funzionino bene solo sulla carta: è impensabile che uno studente riesca a rimanere concentrato su attività di progettazione se poi nell’arco della stessa giornata deve seguire altre sei ore di corsi”. Ecco, allora, che “si potrebbero sperimentare, sin dal primo anno, laboratori compatti, di durata molto breve, ma full time, organizzati in spazi dedicati, attrezzati e con la reale compresenza di docenti interagenti. Per esempio, si potrebbe lavorare su casi selezionati fra i ‘concorsi di idee’ ed i ‘concorsi di progettazione’. Si potrebbe dar vita a workshop intensi, magari anche con studenti di vari anni, accompagnati da frequenti seminari interdisciplinari a tema ed intrecciati con conferenze e lectio magistralis”.
In ogni caso, per il docente tutto ciò non può prescindere da precise conoscenze di base, “dove oggi emergono carenze paurose: regole della grafica tradizionale e delle varie forme d’espressione; norme e codici; tecnologie elementari ed evolute. Si tratta, in sostanza, di attività didattiche cui dedicare periodi di tempo ben più ampi, ma per il loro carattere individuale possono avvalersi anche di supporti multimediali”.
Un’ultima considerazione. “Da decenni – asserisce l’architetto – ho collaboratori di origine diversa. Giovani laureati o semplici studenti di Architettura qui per uno stage: italiani, europei, qualche extraeuropeo. Ebbene, questa Facoltà dovrebbe riorganizzare la didattica inserendola in una ristrutturazione decisa, per formare persone adatte ad interagire in senari quantomeno europei”. Insomma, per il prof. Massimo Pica Ciamarra bisognerebbe provare, sperimentare una didattica diversa per formare architetti di qualità e al passo con i tempi. Ma si avrà il coraggio di farlo?
“Oggi siamo fuori dal mondo – afferma il docente – Frammentazione dipartimentale, moltiplicazione di corsi di laurea a vario livello, diversificazioni formali in ogni accezione: il lento vortice delle riforme non ha colto le specificità didattiche della Facoltà di Architettura, che dovrebbero piuttosto sostenere creatività, dovrebbero formare la produzione, valutazione critica e analisi di ipotesi di trasformazione degli ambienti di vita”. Secondo Pica Ciamarra, i mutamenti dello spazio coinvolgono ambiti disciplinari diversi “che esigono di essere legati in azioni unitarie”. “La Facoltà – prosegue l’architetto – continua ad illudere i suoi studenti che un progetto sia il frutto di un’unica persona. La progettazione è un’attività collettiva, non certo di un singolo individuo”.
Integrazione, per Pica Ciamarra il primo passo per ogni azione progettuale: “l’architetto deve cercare soluzioni capaci di rispondere contemporaneamente ad esigenze diverse. Progettare significa affrancarsi da logiche di settore: è l’azione di specialisti diversi coinvolti in un comune sentire. È fondamentale, quindi, che i campi disciplinari ed operativi che si sono andati separando per motivi di natura politica, burocratica o accademica si riunifichino e s’intersechino nel momento progettuale”. “Perché – sottolinea il docente – prima che “soluzione”, il progetto è “tentativo”: progettisti consapevoli sanno che ogni proposta nasce per confrontarsi con altre soluzioni allo stesso problema”.
“Ai futuri architetti – prosegue – dovremmo quindi saper spiegare perché il progetto sia azione collettiva; perché sulle leadership prevalgano – positivamente – le partnership; perché, assunto il metodo del confronto come strumento della collettività per ottenere qualità, il progetto è tentativo prima che soluzione di un problema. Dovremmo saper spiegare la differenza sostanziale che intercorre tra progetto di architettura e progetti di prodotti che prescindono dal luogo”.
In altre parole “nell’organizzare e gestire la didattica, occorre riflettere su come, concretamente, possiamo trasformare i singoli approfondimenti disciplinari da settoriali in interattivi; su come articolare insegnamenti tesi a sviluppare capacità autodidattiche, in grado cioè di formare al ‘saper vedere l’architettura’”. Non solo, “diventa altrettanto importante che gli studenti sviluppino la comprensione degli aspetti sociali, economici, giuridici e procedurali del fare architettura”.
Già, ma in che modo? Attraverso laboratori compatti, per esempio. “Ho sempre insegnato agli studenti dell’ultimo anno – ammette Pica Ciamarra – Per la prima volta quest’anno sono stato spostato sui laboratori. Ebbene, ho potuto constatare come questi funzionino bene solo sulla carta: è impensabile che uno studente riesca a rimanere concentrato su attività di progettazione se poi nell’arco della stessa giornata deve seguire altre sei ore di corsi”. Ecco, allora, che “si potrebbero sperimentare, sin dal primo anno, laboratori compatti, di durata molto breve, ma full time, organizzati in spazi dedicati, attrezzati e con la reale compresenza di docenti interagenti. Per esempio, si potrebbe lavorare su casi selezionati fra i ‘concorsi di idee’ ed i ‘concorsi di progettazione’. Si potrebbe dar vita a workshop intensi, magari anche con studenti di vari anni, accompagnati da frequenti seminari interdisciplinari a tema ed intrecciati con conferenze e lectio magistralis”.
In ogni caso, per il docente tutto ciò non può prescindere da precise conoscenze di base, “dove oggi emergono carenze paurose: regole della grafica tradizionale e delle varie forme d’espressione; norme e codici; tecnologie elementari ed evolute. Si tratta, in sostanza, di attività didattiche cui dedicare periodi di tempo ben più ampi, ma per il loro carattere individuale possono avvalersi anche di supporti multimediali”.
Un’ultima considerazione. “Da decenni – asserisce l’architetto – ho collaboratori di origine diversa. Giovani laureati o semplici studenti di Architettura qui per uno stage: italiani, europei, qualche extraeuropeo. Ebbene, questa Facoltà dovrebbe riorganizzare la didattica inserendola in una ristrutturazione decisa, per formare persone adatte ad interagire in senari quantomeno europei”. Insomma, per il prof. Massimo Pica Ciamarra bisognerebbe provare, sperimentare una didattica diversa per formare architetti di qualità e al passo con i tempi. Ma si avrà il coraggio di farlo?