Sui risultati della ricerca condotta recentemente dal CIVR, il Centro di indirizzo per la valutazione della ricerca universitaria e degli enti di ricerca, già in tanti avevano qualcosa da dire. La notizia, riportata anche da alcuni quotidiani, secondo la quale la Federico II non sempre eccelle sul piano della produzione scientifica, soprattutto nel campo giuridico, ha destato sorpresa e in alcuni casi anche irritazione. E a dare un’ulteriore spinta alla riflessione sulla quantità e la qualità della ricerca scientifica nell’area degli studi giuridici della Federico II, si sono aggiunte le dichiarazioni forti del prof. Francesco Lucarelli, rese in un’intervista pubblicata sullo scorso numero di Ateneapoli. Il docente di Diritto privato, che è stato Preside della Facoltà di Economia per ben 18 anni, ha parlato di “docenti zavorra” che popolerebbero le aule della facoltà giuridica, “scarsamente impegnati nella didattica e quasi nulli nella ricerca”. Un peso culturale e scientifico per l’ateneo che, a parere del professore, finirà con l’essere penalizzato nella distribuzione dei fondi di ricerca a causa di 50-60 docenti “che non fanno assolutamente nulla nelle facoltà del Federico II, ma evidentemente molto nell’attività privata”. Perché non va dimenticato che il CIVR qualche bacchettata, anche se indirettamente, la dà. Il suo rapporto verrà preso in considerazione in sede di ripartizione del fondo di finanziamento ordinario che ogni anno il Miur destina agli atenei italiani anche sulla base della valutazione della ricerca. Quindi, se i risultati non sono positivi, in un periodo di vacche magre come quello attuale, più che delle bacchettate ci si deve forse aspettare delle vere e proprie batoste. “Per colpa di quei 50-60, soprattutto di Giurisprudenza, rischieremo di ricevere ben pochi fondi, con danno alle attività di studio e di ricerca”, ha detto il prof. Lucarelli ad Ateneapoli. Giurisprudenza però non ci sta ad incassare questo giudizio. E a dirla tutta, non se la sente di accettare neppure i voti attribuitile dal CIVR.
Il Preside Scudiero
“Un’indagine che
riflette il passato”
“Un’indagine che
riflette il passato”
“I dati pubblicati dal Centro di indirizzo per la valutazione della ricerca riflettono il passato, si tratta di un’indagine relativa al periodo 2001/2003”, dice il Preside della Facoltà di Giurisprudenza, prof. Michele Scudiero. “Si tratta di un meccanismo di valutazione sperimentato per la prima volta, i cui risultati non vanno presi per oro colato. Certo, consideriamo con attenzione il giudizio del CIVR, il quale tuttavia non è una sentenza inappellabile. Anche perché sono state segnalate delle carenze nella comunicazione dei dati da parte delle singole strutture, oltre alla necessità di un perfezionamento nel sistema di raccolta. Io inviterei alla prudenza nell’analisi di questi risultati, che non devono condurre a trinciare giudizi taglienti”. L’attività di ricerca: tanta o poca? Conciliarla con l’esercizio di una libera professione è possibile? “Il Dipartimento che dirigo, quello di Diritto Costituzionale Italiano e Comparato, ha pubblicato dal ‘99 ad oggi ben dieci volumi. Invito chiunque a visitare il Dipartimento: metri e metri di pubblicazioni. Qua tutti lavorano sodo, anche chi svolge attività professionale. E poi l’attività professionale stessa, se non è alimentata dallo studio e dalla ricerca, finisce con l’isterilirsi”.
Palma
“Questione di
gelosie tra facoltà”
“Questione di
gelosie tra facoltà”
“L’attività privata che nuoce alla didattica e alla ricerca? Una questione del ‘600. La storia mi appassiona, ma fino a un certo punto”. E’ lapidario il prof. Giuseppe Palma, illustre amministrativista, avvocato e direttore del Dipartimento di Diritto amministrativo e scienze dell’amministrazione. Secondo il professore, la libera professione non nuoce né alla didattica né alla ricerca, anzi. “Quelli che la fanno sono i più intelligenti, da sempre oggetto di critiche da parte di chi non la può svolgere”. Tutta invidia, insomma? “Questioni di gelosie tra facoltà”. Sulla produzione scientifica nel settore amministrativo, il prof. Palma afferma che è cospicua. Ma più in generale, sottolinea: “è inutile scrivere per parlarsi addosso, bisogna farlo quando c’è qualcosa di nuovo da dire”. Infine, un po’ di insofferenza per via della piega che sta prendendo l’università italiana sul piano del rapporto fra didattica e risorse: “è la mente delle persone che va cambiata. Si tende a produrre e a fare didattica in un certo modo per avere più fondi. Sembra che il pensiero dominante sia: promuoviamo tutti, cerchiamo di avere pochi fuori corso perché la concorrenza è tanta. Bisognerebbe portare l’università alla massa, non il contrario”.
Grasso
“la ricerca non è
fatta solo di carta”
“la ricerca non è
fatta solo di carta”
Il prof. Biagio Grasso, docente di Diritto Civile nonché avvocato, è sinceramente stupito per le dichiarazioni del prof. Lucarelli. “Da un docente autorevole come lui non mi aspettavo una tale demagogia”, dice. La ricerca non si valuta quantitativamente ma qualitativamente, non viene fatta solo dai docenti a tempo pieno e, soprattutto, non è fatta solo di carta. I risultati dell’attività scientifica si esprimono anche attraverso la formazione che ricevono gli allievi, e non esclusivamente attraverso la pubblicazione di articoli, testi e manuali. “Se si volesse fare un’indagine seria della produttività di uno studioso, basterebbe verificare quanti dei suoi laureati vincono i concorsi. Tra i miei allievi ce ne sono tanti che hanno superato il concorso notarile. Proprio ultimamente una mia laureata ha vinto il concorso per entrare all’ufficio legale della Banca d’Italia: c’erano duemila candidati per quattro posti, la mia allieva è arrivata prima. Non mi azzarderei mai a suggerire a questi ragazzi di dedicarsi totalmente all’università, dove non ci sono sbocchi e dove per un dottorato gli daranno al massimo 1.200 euro al mese. Chi glielo fa fare? All’università si sa già come devono andare i concorsi, basta constatare quanti professori producono figli che stanno in cattedra. Io sono uno dei pochi che non ha un figlio docente. Mio figlio fa l’avvocato con me”. E allora è il caso di dire che il prof. Grasso tratta i suoi allievi come figli, se è vero che li sprona a studiare per i grandi concorsi tipo notariato o magistratura, o a intraprendere la libera professione, dato che, paradossalmente, il mercato è più meritocratico dell’università. “Sono coordinatore di dottorati di ricerca – dice il professore- I miei ragazzi il dottorato lo fanno, per carità, e lavorano a cose serie. Però gli dico anche di guardarsi intorno, perché quando sono bravi non si devono limitare. Dare 1.200 euro al mese a un giovane di valore, in un sistema di concorsi pilotati, significa rovinarlo”. L’esercizio della libera professione non è, al contrario, un limite per chi vuole fare ricerca scientifica? “Assolutamente no. Per lungo tempo è passata l’idea che fosse sufficiente essere dei mediocri impiegati per stare nell’elenco dei buoni, che solo chi viveva di stipendio poteva essere produttivo nell’università, mentre chi guadagnava un po’ di più grazie alla professione non faceva bene il proprio dovere. Si tratta di posizioni demagogiche e stupidamente sessantottine. Conosco tanti docenti a tempo pieno che sono ancora più “zavorra” per l’università, presi dalle beghe impiegatizie e incapaci di misurarsi con il mercato”. Tornando alla produzione scientifica, quanto si pubblica in Diritto civile? Su cosa si lavora? Il prof. Lucarelli afferma di essere stato l’unico accademico napoletano ad avere ottenuto l’approvazione di un progetto di finanziamento per una ricerca del settore giuridico: “I nuovi diritti soggettivi: beni culturali, ambiente, energia, telerilevamento, informatica”. “Non è sufficiente stampare qualsiasi cosa perché questa possa essere considerata una produzione scientifica di buon livello – dice Grasso- non si può desumere un dato qualitativo da un dato quantitativo. Nel nostro settore sono specialmente i colleghi a tempo pieno a rincorrere il dato quantitativo, a volte scrivendo cose di scarso valore. Sull’approvazione di progetti di finanziamento per ricerche giuridiche dico soltanto che bisogna fare molta attenzione ai contenuti. E’ facile ottenere finanziamenti quando si lavora su cose che interessano il grande pubblico e impressionano chi non è addentro alla materia. Altra cosa è cercare di ottenere un finanziamento per uno studio sull’accollo, la delegazione, le forme volontarie, il divieto del patto commissorio…Argomenti tecnici di alto livello, che noi studiamo continuamente anche senza presentare progetti, che difficilmente troverebbero grande audience in termini di finanziamenti e simili”.
Olivieri
“Pericoloso separare la ricerca dalla
professione”
“Pericoloso separare la ricerca dalla
professione”
Il prof. Giuseppe Olivieri è docente di Diritto Processuale Civile e avvocato. E non potrebbe che essere così. Ci sono alcune discipline in cui separare la ricerca dalla professione può rivelarsi pericolosissimo. “La differenza non va individuata tra chi esercita una professione e chi no, ma tra chi all’università fa e chi non fa – afferma il professore- Il discrimine è dato da un elemento caratteriale, nel senso che se si vuole stare all’università si dovrebbe scegliere di svolgere l’attività privata in un certo modo”. Anche secondo il prof. Olivieri, i dati del CIVR andrebbero attentamente verificati, perché spesso le notizie necessarie all’elaborazione della ricerca non vengono immessi in tempo nel meccanismo informatico da parte delle strutture universitarie interessate. “Per questo motivo i dati non potrebbero essere del tutto attendibili”. In Diritto processuale civile si studia e si produce anche. “Stiamo svolgendo una serie di seminari sul processo societario con la Corte d’Appello. Al termine del ciclo ne verranno pubblicati i risultati”. E il riferimento alla materia societaria offre al professore uno spunto per illustrare con un esempio concreto quale arricchimento dell’attività scientifica sia reso possibile dall’esercizio della professione: “da avvocato sto sperimentando il processo societario da qualche mese, devo dire che ora che lo sto praticando vedo cose che prima, da semplice teorico, non vedevo”.
Vano
“Una valutazione su standard di facoltà non umanistiche”
“Una valutazione su standard di facoltà non umanistiche”
“Ho seguito gli echi della notizia della pubblicazione di questa indagine- asserisce la prof. Cristina Vano, docente di Storia del Diritto Italiano- Una parte del problema è legata senz’altro a criteri di valutazione formattati su standard propri di facoltà non umanistiche. Spesso in fase di richiesta di finanziamenti ci dobbiamo scontrare con formulari impostati su aree disciplinari tecnico-scientifiche, dove il prodotto finale è un prodotto concreto, materiale”. Quando ci si vede valutati sul prodotto finale tutto è più difficile, dice la docente. E nonostante le difficoltà, il Dipartimento di Storia del diritto italiano è riuscito a ottenere recentemente un finanziamento per due progetti presentati nell’ambito del programma PRIN (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale). Mai visti docenti “zavorra”, che per pensare alla propria professione rendono poco o niente a livello scientifico? “L’accusa formulata in questo modo mi pare troppo generica. Un fenomeno del genere nell’ateneo, e non solo a Giurisprudenza, potrebbe certo esistere, anche perché reso possibile dalle maglie dell’ordinamento attuale. Tuttavia una cosa è il piano della legittimità, sul quale non si pone alcun problema, dato che appunto l’ordinamento consente che si insegni all’università in regime di tempo definito, cioè svolgendo contemporaneamente l’attività privata, e un’altra cosa è il piano etico, della scelta individuale. Io mi occupo di ricerca umanistica, sono avvocato ma ho scelto di non esercitare la libera professione. I docenti delle cinque cattedre di Storia del diritto italiano sono tutti a tempo pieno. Però è anche vero che ci sono settori disciplinari in cui il fatto che chi insegna faccia anche l’avvocato è rassicurante, come ad esempio nel caso della procedura civile e della procedura penale”.
Prisco
“Un problema di
comunicazione”
“Un problema di
comunicazione”
Il prof. Salvatore Prisco, docente di Istituzioni di diritto pubblico, non sa dire se è più stupito, arrabbiato o addolorato. “Ho letto dei risultati di questa valutazione su un quotidiano. Mi sono molto dispiaciuto, perché ho sentito poco valorizzato il mio lavoro”. Il professore esprime anche una certa meraviglia: “dal mio angolo visuale non riesco proprio a capacitarmi di come possano essere questi i dati emersi. Non corrispondono né alla mia esperienza, né a quella dei miei colleghi. Noi scriviamo, pubblichiamo, andiamo a convegni anche internazionali, ci chiamano dall’estero”. Due esempi di studi importanti: la ricerca nazionale sulla Costituzione europea, su cui ha lavorato tutto il Dipartimento, e la ricerca sull’ordinamento della comunicazione, che il prof. Prisco presenterà a breve. “Da un lato i parametri di riferimento per la valutazione sono poco chiari, dall’altro c’è evidentemente un problema di comunicazione deficitaria, nel senso che forse non siamo in grado di far conoscere all’esterno i risultati del nostro lavoro. Al di là delle polemiche tra di noi sarebbe opportuno fare una conferenza sulla riorganizzazione della ricerca nel nostro ateneo”. Quanti “docenti zavorra” ci sono a Giurisprudenza? “Se qualche sciocco si rigira i pollici sono problemi suoi, i miei colleghi ed io lavoriamo. Vorrei delle giornate di 48 ore per riuscire a star dietro a tutti gli impegni”. Allora il prof. Lucarelli non ha un po’ di ragione quando dice che i docenti di Giurisprudenza, per star dietro a tutti gli impegni, finiscono col trascurare la scienza? “E’ un’affermazione che mi sorprende. Giurisprudenza è una facoltà professionale, ma non è l’unica: pensiamo a Medicina, alla stessa Economia. Questo non significa che vi si produca meno in termini scientifici e di didattica. Io sono docente a tempo definito e penso sia un fatto positivo, perché porto ai ragazzi la mia esperienza professionale. E poi in studio ci sono i miei collaboratori, che mi aiutano a gestire bene il lavoro. No, la professione non ostacola il mio impegno universitario, né mi fa trascurare gli studenti. In casi estremi possono venire a incontrarmi allo studio, il mio numero di cellulare è sul sito. Per loro ci sono sempre”.
Amatucci
“Meglio consultare
i cataloghi”
“Meglio consultare
i cataloghi”
“Per potere esprimere un giudizio sul lavoro di colleghi di altre facoltà è necessario avere un quadro preciso di ciò che è stato pubblicato”. Il professore Andrea Amatucci, docente di Diritto finanziario e presidente dell’Unione Nazionale delle Camere degli Avvocati Tributaristi, illustra il percorso che si deve compiere per una corretta valutazione della ricerca scientifica. Come a dire che formulari e sistemi informatici possono anche essere messi da parte. “E’ sufficiente esaminare per ogni disciplina due o tre riviste scientifiche e controllare quanto si è pubblicato. E’ evidente che non si è fatto questo tipo di indagine, perciò sono usciti fuori dati negativi. Personalmente sono autore e coordinatore dell’unico trattato di Diritto tributario nel mondo, che tra poco uscirà anche in edizione spagnola e inglese. Anche il mio manuale di Diritto finanziario è stato pubblicato in spagnolo. Ho curato convenzioni scientifiche internazionali, tra cui una con l’università tedesca di Iessen, dove c’è un centro di ricerca sullo sviluppo regionale del Mezzogiorno. Dunque, penso che per le recenti valutazioni ci si sia rivolti a un centro che evidentemente non funziona”. Avvocato e docente che pubblica tanto su temi impegnativi: come si fa a conciliare? “Penso che la professione arricchisca la ricerca, e credo che la stragrande maggioranza dei docenti a tempo definito rispetti il giusto equilibrio fra attività scientifica e attività privata. Se si indaga seriamente, ci si ritrova davanti a risultati più interessanti dai professori a tempo definito piuttosto che da quelli a tempo pieno. Non va dimenticato inoltre che nella materia giuridica non è come in quella medica o sanitaria: lo studio professionale è come una piccola azienda con tanti validi collaboratori”. Anche il prof. Amatucci invita a considerare, tra i fatti rilevanti ai fini di un corretto giudizio del lavoro svolto, gli importanti obbiettivi raggiunti dopo la laurea dagli allievi della Facoltà di Giurisprudenza Federico II: “la nostra facoltà ha laureato studenti che hanno poi primeggiato nei concorsi importanti. Come sarebbe stato possibile, se si fosse abbandonata la ricerca?”.
Abignente
“Il giudizio di valore
non si può ridurre
ad una formula
matematica”
“Il giudizio di valore
non si può ridurre
ad una formula
matematica”
Anche il prof. Angelo Abignente, che insegna Filosofia del diritto, esercita la professione di avvocato. “Non credo che lo svolgimento dell’attività professionale sia di intralcio alla ricerca scientifica, anzi, a mio parere è uno stimolo. Tutto sta nel trovare il giusto equilibrio”. Il reale problema che si dovrebbe affrontare in questo periodo è quello dell’introduzione di criteri di valutazione aziendalistici in quello che il prof. Abignente ama ancora chiamare “il tempio della cultura”. “Ben venga qualunque sprone a fare ricerca – sostiene il professore- ma le valutazioni aziendalistiche no. Nelle facoltà come la nostra bisogna pensare, poi c’è chi trova più facile mettere il pensiero per iscritto e chi meno. Quali sono i criteri utilizzati per valutare la ricerca? Quantità o qualità? Uno dei maggiori esponenti della filosofia del diritto, il prof. Conte, ha sempre pubblicato scritti che non superano mai le venti pagine. E poi io dico sempre che i filosofi del diritto partono da Socrate, che non ha scritto niente, ma non può certo essere considerato una zavorra del pensiero! Qui non siamo a Ingegneria, dove alla fine di una ricerca si può contare il numero dei brevetti prodotti. Fosse per me le pubblicazioni andrebbero tagliate, ci si parla troppo addosso”. Il prof. Abignente sottolinea con decisione l’inadeguatezza dei parametri che si stanno diffondendo per la valutazione della ricerca scientifica, almeno per facoltà come Giurisprudenza: “abbiamo bisogno di pensiero, non di prodotti apparenti. Si vuole ridurre tutto a un controllo informatizzabile in cui nessuno si prende la responsabilità della scelta: questa è una ricerca che vale e questa no. In realtà, il giudizio di valore, che è essenziale nella nostra disciplina, non si può ridurre a una formula matematica”.
Sara Pepe
Sara Pepe