Fare teatro per diventare un buon medico

Si apre il sipario su “La strategia del silenzio: per una comunicazione felice tra medico e paziente”, laboratorio teatrale promosso dal prof. Ciro Gallo a Medicina. Mai titolo fu più giusto, dal momento che l’obiettivo dichiarato è quello di favorire il rapporto tra medico e paziente, non grazie a bisturi e terapie, ma sulle tavole del palcoscenico. Un progetto ambizioso frutto di una lunga gestazione, come spiega il docente: “l’idea nasce da una mia esperienza personale. Da giovane ho fatto un po’ di teatro a livello amatoriale ed ho provato sulla mia pelle la qualità formativa di questa disciplina. Avvertivo la necessità di un processo formativo diverso, che permettesse ai ragazzi di crescere non sul piano teorico ma su quello del vissuto. Dopo essermi confrontato con un mio amico regista che si occupa di pedagogia teatrale, ho deciso di proporre il progetto in Dipartimento”. Un metodo alternativo alla didattica tradizionale, scelto dopo aver vagliato anche altre ipotesi: “mi si offrivano diversi strumenti pedagogici alternativi, come cineforum o spettacoli teatrali, che sono validissimi. Un film come “Tutto su mia madre” potrebbe chiaramente aprire un dibattito sulla donazione degli organi, ma, a mio parere, si tratterebbe di metodi passivi. Voglio, invece, che attraverso un coinvolgimento diretto i ragazzi assumano degli atteggiamenti valoriali da portare con sé nel rapporto con chi hanno davanti, per poter riconoscere una persona prima che un paziente”. Il rapporto medico/paziente rappresenta, infatti, un aspetto non secondario nella formazione di un giovane studente, ragion per cui il laboratorio non rappresenterà semplicemente un piacevole diversivo: “non si tratterà di un’attività extracurriculare, i ragazzi non formeranno una compagnia teatrale universitaria. Non cerchiamo piccoli attori che crescano. Il laboratorio rientra nelle ADE (Attività Didattiche Elettive), è finalizzato alla formazione di un medico come gli altri esami e i ragazzi saranno anche sottoposti ad una valutazione durante la serata finale”. Una serata finale che arriverà al termine di un percorso articolato in due periodi di tre mesi: ottobre/dicembre e marzo/maggio, per un totale di 60 ore complessive distribuite in incontri che vanno dalle 2 alle 3 ore. “Ho evitato di fissare le lezioni durante i periodi d’esame. È un percorso impegnativo, sono 60 ore che vanno necessariamente seguite tutte”. Nella prima fase sarà centrale un lavoro fisico, corale, molto vicino a una ginnastica; nella seconda si lavorerà invece sulla performazione in senso stretto: sul dialogo e/o scena a due, cominciando con improvvisazioni libere, parlate, prima di passare ad un uso eventuale di testi, che tuttavia non saranno portati in scena: “nella serata finale non si metterà in scena un testo di repertorio, ma si paleserà sul palco il processo che si è attivato sugli studenti durante il corso, si materializzeranno le loro progressive acquisizioni, quanto hanno imparato, anche se non ho ancora deciso in che modalità”.
Ma dove sta il punto d’incontro tra due discipline, la medicina e il teatro, che sembrano quasi agli antipodi, emblema di razionalità e scienza l’una, e di estro e creatività l’altra? “Per molti aspetti il teatro è essenziale nella carriera di un medico, perchè permette di sviluppare capacità di ascoltare l’altro, di conoscere e sentire l’importanza del linguaggio del corpo, sia il proprio che di chi ci è accanto. Sul palco i ragazzi dovranno fisicamente essere in un certo punto, fare un certo gesto, avere una certa espressione, essere credibile all’altro, non perchè debbano imitare Gassman, ma perchè in quel momento l’attore è una persona che si rapporta con un’altra. Il teatro ci permette di saper gestire silenzi e pause, di cui un attore ha terribilmente paura, ma che sono il momento in cui si ha una maggiore consapevolezza di ciò che si vive. Tutti questi aspetti vanno pensati nella relazione medico-paziente. In una breve esperienza lavorativa in consultorio, una realtà molto particolare, ho capito che il ‘non detto’ delle donne, delle mie pazienti, era il modo di mostrare la diffidenza verso chi era in camice bianco e rappresentava le istituzioni. Ciascun paziente è diverso dall’altro, ognuno ha delle manie, un carattere, delle paure, davanti alle quali il medico si deve ricreare, e la creatività è altra caratteristica peculiare del teatro. Il caso del dottor Checov, medico e autore teatrale, è in questo senso il più significativo”. 
Gli studenti sembrano aver ben recepito gli intenti del loro docente e in due giorni si sono già prenotati per seguire il corso in 10 tra gli iscritti al terzo anno, praticamente la metà del numero massimo di ammessi. Ragazzi incuriositi e volenterosi di scoprire una realtà altra, pronti a mettersi in gioco nonostante un percorso di studi che assorbe moltissimo tempo: “Medicina è una Facoltà molto complessa, in cui i saperi vengono ‘detti’, ma il detto passa facilmente, c’è bisogno di vivere sulla propria pelle determinate situazioni. Del paziente il medico deve saper leggere e capire il disagio, il non detto, la paura e le difficoltà indotte da condizioni di vulnerabilità e preoccupazione. È paradossale che la proposta venga da me, che sono un docente di Statistica Medica, e in un certo senso rappresento l’alfiere della medicina scientifica, quella che conferisce la base teorica ai saperi di un medico, ma mi rendo conto dei limiti di questo rigore metodologico. Scendo in campo a 61 anni, perchè se non ci mettiamo in gioco per primi i ragazzi non ci seguiranno”. 
La chiave del successo è tutta qui. Mettersi in gioco nonostante un percorso di vita estremamente diverso, nonostante lo scetticismo, nonostante l’età. Perché, in fondo, come ha detto qualcuno, gli esami non finiscono mai…
Anna Verrillo
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