Il calcio, lo sport più amato dagli italiani, protagonista nelle aule di Economia

Incontri sulla storia del calcio alla Facoltà di Economia nell’ambito del corso di Storia dell’Industria del prof. Nicola De Ianni. Ospiti del Dipartimento di Analisi dei Processi Economici Sociali e Linguistici, alcuni dei protagonisti di questi ultimi anni per discutere, insieme agli studenti, della seconda potenza economica del mondo e dei suoi retroscena umani. “Si tratta di uno sport in cui gli aspetti economici tendono a prevalere e noi, nell’ambito del programma del corso, abbiamo voluto presentare il ventaglio più ampio possibile delle sue professionalità: l’allenatore, il procuratore, il direttore sportivo”, spiega il docente a latere degli incontri che sono cominciati il 9 gennaio con il procuratore Antonio Caliendo e proseguiti con il Direttore Tecnico della Nazionale Under 21 Ciro Ferrara (il 10), il Direttore Generale del Calcio Napoli Marco Fassone (l’11), il procuratore Dario Canovi (il 16), il Direttore Sportivo dell’Atalanta Pier Paolo Marino (il 24) e si concluderanno il 21 febbraio alle 11.30, presso il Dipartimento, con il giornalista di SKY Massimo Mauro.
Molto partecipato l’incontro di apertura con Antonio Caliendo, storico procuratore di Roberto Baggio ai tempi del suo trasferimento dalla Fiorentina alla Juventus (“dovemmo agire con massima discrezione. Al termine dell’operazione, per tre anni non mi sono potuto avvicinare a Firenze”). Gli inglesi hanno inventato il calcio, ma l’organizzazione gliel’hanno data gli italiani, ma oggi, dice Caliendo, “siamo vent’anni indietro, perché abbiamo distrutto vivai e scuole calcio”. Altrove, in primo luogo in Sud America, è tutto un fiorire di centri sportivi, vere cittadelle che producono centinaia di posti di lavoro. Tantissime le domande degli studenti. 
Antonio Caliendo,
il procuratore 
“mister 10%”
Come ha influito la sentenza Bosman (la decisione della Corte di Giustizia della Comunità Europa, datata 1995, che consente ai calciatori professionisti comunitari di trasferirsi gratuitamente ad un altro club alla scadenza del contratto con la squadra in cui giocano) nel rapporto fra calciatori e procuratori e, più in generale, come questo è cambiato dalla fine degli anni ’70, cioè dalla prima procura? Inoltre, come ci si conquista la fiducia di un calciatore e cosa rischia di farla perdere? “La sentenza ha aperto le frontiere. Il rapporto procuratore-calciatore, in passato molto stretto, quasi personale, adesso che sono anche stati introdotti degli obblighi scolastici per i calciatori e c’è maggiore cultura, è diventato molto più professionale. Prima erano dei bambini, oggi sono dei volponi, ma spesso la precarietà li travolge. I contratti a cinque anni rappresentavano un investimento che le società facevano, al termine del quale sarebbero arrivati anche i profitti, oggi i contratti sono al massimo di due anni”, risponde Caliendo.
Oltre la trasparenza, quali doti servono per diventare procuratore e come funzionano gli altri sistemi europei? “Un tempo il calciatore non doveva avere, per forza, un procuratore. Dopo il caso Baggio è stata un’esplosione. Bisogna stare in un’organizzazione, ma in Italia siamo carenti. Per questo ci sono più italiani all’estero che in patria e dovunque io vada incontro italiani di successo, soprattutto napoletani. Per guardare avanti bisogna andare fuori, in Inghilterra dove, come in Brasile, un privato può acquistare parte del cartellino di un calciatore e dove si quotano in borsa i diritti sulle immagini. In Germania le società rispettano le scadenze; in Inghilterra, vero paradiso del calcio, se non paghi entro ventiquattro ore, ti bloccano i conti ed i pagamenti. Da noi, i tre quarti circa delle squadre non rispettano le scadenze ed in Spagna fanno dei contratti a sei mesi e si passa spesso per i tribunali, per avere i successivi sei”. Le ultime domande sono del prof. De Ianni.
Lei è stato soprannominato mister 10% perché era questa la ritenuta percentuale sui contratti dei giocatori. Mi interrogo sullo svincolo, perché i contratti pluriennali a cinque anni sono stati una delle cause che, ad un certo punto, hanno portato le società in rosso. Se il limite di due anni invece che ai contratti fosse posto alle procure? E se un calciatore non viene fatto giocare che strumenti ha un procuratore nei confronti della società? E che succede ai contratti che non si perfezionano? “Quando un giocatore viene da me, gli chiedo sempre se è per guadagnare o per far valere il proprio valore, in base al rendimento in campo e senza mai interferire nelle scelte tecniche. Se il patrimonio si svaluta, si cerca una nuova società. Il 10% rappresenta la differenza fra la boutique ed il supermercato, il punto di riferimento è sempre ad un’organizzazione, in cui ognuno svolge il proprio ruolo. Le squadre, per molto tempo, hanno avuto l’abitudine di risanare i bilanci, vendendo un giocatore di valore in cambio di due con la metà del valore di mercato, ma ne scaturiscono bilanci fasulli, perché un giocatore si può liberare anche pagando un parametro stabilito in base alla cifra dovuta. Penso che in futuro si arriverà anche a contratti di sei mesi”. Dagli anni ’70, quando Caliendo ha cominciato a lavorare, il contesto è molto cambiato: gli sponsor, i diritti televisivi, le liberalizzazioni sugli ingaggi, hanno modificato il volto di questo sport: “all’inizio la Federazione non dava il permesso ai calciatori di fare pubblicità, sono stato io a consentire ad Antognoni, appena ventenne, di girarne una convincendo la Federazione attraverso una proposta contrattuale che avrebbe portato soldi anche a lei con il 10% dei diritti”. Prospettive di guadagno che da allora non hanno mai spesso di far girare la testa: “tanto che oggi, quando nasce un bambino, i genitori non guardano più il sorriso, ma i piedi”, conclude il procuratore. 
Ciro Ferrara 
dal Napoli di 
Maradona alla 
Nazionale Under 21
“Per fortuna, io non ho avuto questo problema, anzi mia madre sosteneva che il calcio togliesse tempo allo studio e non sono cresciuto con l’idea di diventare calciatore”, racconta, dal canto suo, Ciro Ferrara. Bandiera prima del Napoli e poi della Juventus, è stato uno dei più forti difensori della sua generazione, prima di intraprendere la carriera di allenatore. Dopo un’esperienza infelice, proprio con la sua Juventus, è approdato alla Direzione Tecnica della Nazionale Under 21, con la quale ha conquistato la qualificazione per gli Europei. “Per ottenere dei risultati serve il contributo di tutti: società, allenatore e giocatori. Quando le cose vanno male, è difficile imputare le responsabilità a qualcuno in particolare”. All’estero, non si ha l’abitudine di trasformare un allenatore in un capro espiatorio, ma anche qui le cose stanno cambiando: “è emblematico l’esempio di Palermo – Napoli. Al gol dell’ex Cavani ha applaudito tutto lo stadio”, commenta Ferrara che a fine 2011 è stato insignito del premio come miglior allenatore. Impossibile tentare di frenare il fiume in piena delle domande. 
È vero che, in genere, un giovane straniero è più pronto di un giovane italiano? “È una differenza di mentalità, il giovane straniero viene messo in campo prima. In alcune nazioni non c’è l’assillo del risultato e si lavora solo per far giocare dei giovani”. 
Un allenatore dell’Under 21 seleziona e valorizza le risorse umane più di un club o di una nazionale maggiore? (prof.ssa Roberta Siciliano). “In realtà è un compito più facile, perché sono pochi i ragazzi che giocano e si convocano tutti. La preparazione si basa su poche cose. Si lavora per lo più sulla tattica, non certo sulla condizione fisica. In questi casi, prima ancora che sbagliare il giocatore, è grave sbagliare la persona”. 
Quali sono le differenze principali fra l’organizzazione del Napoli e quella della Juventus? “Si tratta di due periodi diversi della mia vita, ma anche di due diverse stagioni per le società. A Napoli l’ambiente era molto familiare, sebbene Ferlaino fosse molto ascoltato, ma l’organizzazione era molto snella, con poche persone. Quello che forse è diverso è la pressione mediatica. Se è vero che la Juventus vinceva tanto, era altrettanto vero che il giorno dopo la vittoria era tutto finito e si ricominciava da capo”. 
Cosa ne pensa dello scudetto revocato del 2005? “È un argomento delicato. A me non hanno tolto nulla, gli otto scudetti vinti sono qui tutti tatuati sul mio braccio. Per conquistare quel titolo abbiamo lavorato duramente e ce lo sentiamo nostro anche se altri hanno deciso diversamente”. 
Qual è il ricordo più bello degli anni a Napoli e di giocatori come Bruscolotti e Maradona? “Giocare con Maradona è stato un onore, Bruscolotti invece era chiuso, burbero, ma un amico. L’immagine più bella è quella del primo scudetto”. Lei ha conosciuto Moggi, pensa che sia più genio-imprenditore o ladro? “È il miglior dirigente che abbia mai avuto. Quando entrava lui nello spogliatoio, non volava una mosca e sapeva farsi rispettare, soprattutto quando le cose andavano male. Credo che il merito di tanti successi vada attribuito anche al modo in cui sapeva fare gruppo”. 
Come si vive, da calciatore, la scadenza ed il rinnovo del contratto? “Non sono mai arrivato a trovarmi alla scadenza del contratto e nella mia vita ho fatto un solo passaggio, quando nel ’94 il Napoli mi disse che non avrebbe rinnovato. Avevo diverse offerte, ho fatto la scelta che ritenevo migliore per il mio futuro, tra l’altro con condizioni economiche peggiori. Non si è trattato di una scelta personale, avevo tutte le condizioni per restare”. 
Quanto è servito, nella sua esperienza, avere un procuratore? (prof. De Ianni). “Nella mia vita ho avuto solo due procuratori, uno quando ho firmato con il Napoli ed uno quando ho fatto il passaggio. Per otto anni ho sempre voluto gestirmi da solo, contrattavo io con la società e devo dire non era facile. Quando sono andato a Torino, ho sentito il bisogno di un sostegno, che si è sempre rivelato prezioso, soprattutto nei momenti di tensione”. 
E come sono i rapporti fra Direttore Sportivo e società? (ancora prof. De Ianni). “Oggi sono figure distinte, forse un giorno si fonderanno in un’unica figura di direttore-manager. In Inghilterra ci sono già arrivati, ma qui si scatenerebbero dei conflitti. Ognuno deve capire i propri limiti e le proprie competenze”.
Simona Pasquale 
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