L’inviato, un lavoro che non deve mai finire di sorprendere

Si torna a parlare di inviati al fronte nell’ultimo incontro del ciclo su “La guerra vista dalle donne”. Seminari che hanno dato agli studenti dell’Orientale l’opportunità di confrontarsi con giornaliste che hanno avuto esperienza diretta degli ultimi conflitti in Iraq e in Afghanistan, e che hanno raccontato ognuna in maniera diversa la guerra e il mestiere dell’inviato: Giovanna Botteri (Tg3), Tiziana Ferrario (Tg1), Monica Maggioni (Tg1), per arrivare all’ultimo incontro con Maria Cuffaro (Tg3).
Un mestiere, quello dell’inviato in zone di guerra, che sembra sempre più complesso. “I giornalisti sono sempre stati in teoria possibili mediatori tra le due parti in conflitto” osserva la Cuffaro, “anche se con molta cautela”. Ma l’Iraq “ha segnato uno spartiacque rispetto alla neutralità del giornalista”, continua. “Prima giravi confortandoti con il pensiero di essere neutrale, sebbene questo non ti tutelasse sempre. Ora non è più così, perché comunque fai parte del nemico. Nell’ultima guerra si è riusciti a trasformare il conflitto in scontro tra mondo islamico e occidente”. Ormai, continua la Cuffaro, “non ci sono più inviati a Baghdad perché dopo tre anni che ogni giorno muoiono tante persone non fanno più notizia né le autobombe né i sequestri. Bbc e Cnn sono rimaste, ma vivono barricate; i giornalisti escono pochissimo, e le immagini che trasmettono non sono girate dai loro operatori ma da iracheni mandati a fare veloci riprese con piccole telecamere”.
Come Tg3, spiega, “abbiamo fatto la scelta di non essere embedded, una posizione che limita fortemente il punto di vista. Anche se ad un certo punto siamo stati costretti a stare a N??ir?yah  con l’esercito per una settimana”. E racconta come le sia capitato di trovarsi, insieme ad alcuni colleghi, in una delle due situazioni di scontro più acceso vissute dall’esercito italiano (che comunque, puntualizza la Cuffaro, veniva visto come tutti gli altri, “nonostante la loro missione ci fosse stata venduta come diversa”). “A N??ir?yah” racconta la giornalista, “si sapeva che sarebbe scattato l’attacco delle milizie di Al Sadr, ma noi giornalisti avevamo sottovalutato la cosa, finché l’interprete non ha capito che era imminente e ci ha accompagnato al comando italiano. Ma proprio lì dopo poco è stato sferrato l’attacco, e ci siamo trovati per caso in prima linea. E altrettanto per caso siamo sopravvissuti, grazie anche alla pessima mira degli iracheni, perché nel frattempo le forze della base italiana a 30 km di distanza non riuscivano ad arrivare. Ma abbiamo avuto la possibilità di offrire una testimonianza diretta; ad un certo punto sono riuscita ad uscire per telefonare in studio per due minuti, anche se poi sono rientrata correndo, dopo un mortaio, e penso di aver battuto i cento metri…. E nel frattempo Berlusconi, in quel momento a capo del governo, dichiarava che si trattava di sole scaramucce: lì si poteva toccare con mano la distanza tra propaganda e realtà, e anche i soldati, per quanto avrebbero voluto toglierci volentieri dai piedi perché eravamo lì a raccontare tutto, ascoltavano queste dichiarazioni increduli”. 
Propaganda che in ogni guerra va prevista, osserva la Cuffaro, “è normale che ogni governo, come ha fatto Bush, cercherà di sostenere le truppe e difendere gli interessi del governo nazionale. È normale che inventino scuse. Meno normale è il fatto che noi ce le beviamo”.  
Dopo la chiusura da parte del governo Usa nella guerra del Golfo, spiega la Cuffaro, “questa volta c’è stata inizialmente più apertura verso tutti i media, tranne che verso Al Jazeera. Una tv molto particolare: ha sede nel Quatar, ma la maggior parte dei suoi reporter sono ex dipendenti della Bbc, e trattano le notizie in maniera molto ‘anglosassone’, solo con un punto di vista che coincide con quello del mondo arabo. Una volta chiesi a uno dei loro reporter perché davano spazio ai fondamentalisti islamici, e lui mi rispose: ‘anche voi date spazio ai fondamentalisti cattolici’. Il fatto poi che facciano da cassa di risonanza per filmati inviati da Al Quaeda è una questione controversa all’interno dello stesso mondo arabo. 
In ogni caso per la Cuffaro l’aspetto più importante del mestiere di inviato “è la possibilità di verificare sul terreno le notizie. Ma è molto difficile e ci vuole umiltà, studio di fonti diverse, è necessario parlare con molte persone, e cercare di immedesimarsi. Sei comunque tu che devi fare uno sforzo continuo, sei tu in casa d’altri; ma è la parte bella del lavoro, fare sì che non diventi mai routine, mai ‘mestiere’, farsi sempre sorprendere. Per trasmettere una piccola parte di quella realtà che speri possa offrire un altro modo di vedere le cose a chi ti guarda in Italia”.
Come nel caso dell’Iran, “che non è fatta solo delle dichiarazioni di Ahmadinejad ma è un paese grande con una popolazione molto giovane, moltissimi studenti, ragazze alla moda che girano con un velo ridottissimo e una popolazione moderna e organizzata, con una rete di opposizione che trova continuamente modi per eludere la censura, mentre Ahmadinejad rischia di cadere per la crisi economica galoppante. Sta al giornalista dire che oltre alle dichiarazioni ufficiali del premier c’è dell’altro”. Anche se lo spazio sui media italiani è “quasi tutto dedicato a cronaca e politica italiana e molto poco a tutto il resto del mondo, se non per la vera e propria cronaca di guerra…”. “Chi vuole fare giornalismo”, conclude, “è meglio che impari l’inglese e vada all’estero”.
Viola Sarnelli
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