La solidarietà e l’amore per Stefano Rodotà

Solidarietà ed amore al centro della riflessione di Stefano Rodotà, giurista ed ex senatore, ospite il 12 aprile a Monte Sant’Angelo del Laboratorio di Responsabilità, Etica e Diritto promosso dai professori Adele Caldarelli, Direttore del Dipartimento di Economia, Management e Istituzioni (DEMI), Mauro Sciarelli e Renato Briganti. “La solidarietà – ha sottolineato Rodotà – è il riconoscimento dell’altro, dei suoi diritti, delle sue necessità. Anche se non lo conosciamo, esiste e va messo in condizione di vivere in maniera libera e dignitosa. La solidarietà è spesso invocata, ma è poco praticata. Quando guardo le immagini del campo profughi di Idomeni mi chiedo come un continente di 500 milioni di abitanti, l’Europa, possa avere condannato 10 mila persone a vivere in quella condizione. È una vergogna che mette in discussione la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Quando parlo della necessità della solidarietà, mi riferisco a quella tra gli Stati, che è compromessa se costruiamo muri, e di quella tra le persone”. Quanto all’amore, ha proseguito il giurista che un paio di anni fa fu anche tra i papabili per la Presidenza della Repubblica, “c’è uno scrittore americano, Saul Bellow, premio Nobel per la letteratura nel 1976, che lo ha definito mirabilmente: è la coscienza dell’incompletezza”. Spesso, ha ricordato Rodotà, “il diritto ha preteso di sopraffare l’amore, di imporre paletti. Mi sono sposato nel 1960 e quando mia moglie ed io eravamo all’altare ci fu letto l’articolo 145 del Codice Civile. Iniziava così: ‘Il marito è il capo della famiglia’. Noi ci siamo guardati e per poco non ci siamo messi a ridere. Pensate che cattivo augurio, quello del Codice, per una vita di coppia che andava ad iniziare. Un capo ed una sottomessa. Il marito, in quei tempi, aveva il diritto di controllare la corrispondenza della consorte. Fino al 1960, inoltre, l’adulterio dell’uomo era legittimo, purché non pubblicamente noto. Quello della moglie era un reato. Con queste modalità il diritto dettava regole che mettevano l’amore fuori gioco. Pensate che i figli nati fuori dal matrimonio erano considerati illegittimi e che non potevano essere riconosciuti dal padre. Sui documenti era scritto N.N. Era una sigla che richiamava una espressione latina: Nomen nescio. Tradotto: non conosco il nome. Lo si conosceva, nella maggior parte dei casi, ma prevaleva la volontà di imporre uno stigma negativo al frutto di amori o passioni nato al di fuori del matrimonio. Che poi tutto ciò determinasse nei figli illegittimi, come ha ben raccontato Franco Zeffirelli, vergogna, imbarazzo, turbamento, era questione che ai giuristi dell’epoca poco interessava. Non è stato facile liberarsi di ciò”. Come del resto, ha ricordato Rodotà, racconta anche un episodio che risale ai tempi dell’assemblea costituente: “L’articolo 29 della Costituzione sancisce che il matrimonio è fondato sull’uguaglianza tra i coniugi, ma quando si cominciò a discutere del tema, nell’assemblea costituente, due eccelsi giuristi, Orlando e Nitti, dicevano: ma cosa è questa uguaglianza? Il Codice Civile attribuisce al marito il ruolo di capo della famiglia. Fu una donna a reagire, che si chiamava…
 
Articolo pubblicato sul nuovo numero di Ateneapoli in edicola (n. 6/2016)
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