Iran, la rivoluzione delle donne

Negli anni in cui l’Occidente sembra voler compiere un’inversione nel campo dei diritti e dove le istanze sovraniste e i motivi nazionalistici tornano sulla scena, ci sono parti di mondo dove si può morire per un indumento mal indossato. Il fatto è dello scorso settembre e lo conosciamo tutti. A Teheran la ventiduenne Mahsa Amini è stata brutalmente assassinata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente il proprio hijab, il velo islamico ancora oggi obbligatorio per legge nell’Iran di Khamenei e in Afghanistan. Così come il suicidio del tunisino Mohamed Bouazizi aveva portato all’insurrezione popolare contro il regime di Ben Ali nel 2011, dando inizio alla cosiddetta Primavera Araba, la morte di Mahsa è stata la miccia per l’ennesima rivoluzione iraniana. Sin dalle prime ore successive al fatto, le autorità avevano infatti attestato che la morte della giovane era avvenuta in seguito ad arresto cardiaco. Non stupisce. Le stesse motivazioni venivano addotte quando il regime di Bashar al-Assad doveva giustificare le morti nei centri detentivi di Damasco, in Siria, che in realtà erano veri e propri luoghi di tortura, come abbiamo poi saputo. Ebbene, il caso di Teheran ha portato le donne e i liberali di tutto il mondo a schierarsi con le insorte che al grido di “Morte al dittatore!” sembrano in procinto di scrivere una nuova pagina di storia. Ma sarà davvero l’ultima rivoluzione? Ne abbiamo dialogato con la prof.ssa Miriam Abu Salem, docente di Diritto comparato delle Religioni al Dipartimento di Giurisprudenza della Vanvitelli, di origini giordane, che vanta sul tema una produzione saggistica assai copiosa. “Fino al 1936 le donne iraniane hanno goduto di una quasi completa emancipazione, riconquistata per brevi periodi in seguito ma perlopiù vilipesa”, ha detto. Sebbene la condizione della donna nell’Islam sia stata soggetta a sensibili miglioramenti nel corso degli anni, e specifico è il caso tunisino, la natura androcentrica del culto è infatti ancora precipua. Ancora oggi è possibile che un uomo ponga fine al matrimonio ripudiando la donna con un’espressione verbale, cioè ripetendo per tre volte a voce alta “talāq”; ancora oggi nell’Islam, sebbene vi siano alcune garanzie e il legislatore possa parzialmente intervenire, l’uomo entra in possesso col matrimonio di alcuni diritti personali, tra i quali quello per cui la moglie non gli si può negare sessualmente se non in specifici casi. In Tunisia è stato abolito il matrimonio riparatore, ma questo ha effetto nei grandi centri urbani. Nelle aree rurali viene celebrato ugualmente perché la donna non vuole costituire un motivo di disonore per la famiglia originaria. “Sono degne di rilievo due considerazioni”, ha spiegato la docente. “Primo: le leggi si collocano in un contesto di norme morali e usi sociali, per cui il cambiamento spesso è idealmente auspicabile, ma fattualmente complesso da realizzare. Secondo: la conformazione patriarcale e paternalistica dell’Islam è frutto di diversi fattori, tra cui spicca la pratica esegetica, cioè interpretativa, che è stata sempre prerogativa degli uomini i quali, in quanto parte dominante, l’hanno sfruttata a proprio vantaggio”. Le Sure coraniche infatti, cioè i versetti, si prestano in molti casi a un’interpretazione tendenziosa, la quale può essere arbitrariamente posta contro alcune parti. Il Corano di per sé persegue il fine dell’uguaglianza sociale, la quale non esclude certo le donne. Sono gli uomini ad averne reso un’interpretazione radicale in tal senso, come nel caso della poligamia, per cui esiste un unico versetto che peraltro è molto ambiguo”, ha aggiunto la prof.ssa Abu Salem.

La lotta “una presa di posizione collettiva verso il regime”

La rivoluzione di settembre non è certo la prima, e non coinvolge solo le donne. Forse il sistema-mondo attuale, fatto di vicinanza dovuta all’impiego delle nuove tecnologie, ha fatto sì che anche in quella parte del pianeta si iniziassero a desiderare alcune delle libertà di cui godono gli occidentali. È un fatto che negli ultimi anni le istanze liberali abbiano conosciuto un notevole inasprimento, e con esse le richieste di emancipazione femminile. Era il 2019 quando Nasrin Sotoudeh, avvocata e attivista iraniana, fu condannata a 33 anni di carcere e 148 frustate per essersi esposta in pubblico senza velo e aver supportato la causa di altre donne. Ma era il 2020 quando, grazie alle pressioni dell’opinione pubblica internazionale e di Amnesty International, la pena le fu interamente condonata. “Questa rivoluzione – ha proseguito la docente – è particolare in quanto vede le donne supportate non solo dagli uomini, ma anche dai giovanissimi, dai Millennials. Allora ci rendiamo conto che non è solamente una lotta per l’emancipazione femminile, ma già il grido ‘Morte al dittatore!’ ci conferma che si tratta di una lotta per la libertà, di una presa di posizione collettiva verso il regime. Le donne, volendo rimanere nel merito, non stanno combattendo contro l’obbligo di indossare il velo, ma per ottenere la libertà di scegliere come, quando e se indossarlo. È una grande differenza”. Internet aiuta, anche quando il regime tenta di dossare le piattaforme online dove si organizzano le manifestazioni, perché i giovani riescono sempre a trovare qualche escamotage per aggirare il sistema. Questa è una lotta di libertà, uno di quei momenti storici in cui la popolazione scende in piazza per dire che non è più il tempo dei despoti. Ma i pronostici quali sono? È auspicabile una vittoria o il fallimento è dietro l’angolo? “Non ho la sfera di cristallo ma è probabile che il regime si abbandonerà ad alcune concessioni per placare le acque. Oggi le donne in Iran possono ambire a una certa parità nel campo dei diritti, specialmente per quanto riguarda il mercato del lavoro. Non possono però accedere a determinate cariche politiche e il culto rimane un settore a guida esclusivamente maschile. Forse ci saranno delle modifiche, o forse assisteremo a un nuovo inasprimento, è difficile dirlo. Per quel che mi riguarda, spero che questa sia l’ultima rivoluzione”. Anche il web, il cui ruolo nelle dinamiche sociali sta concedendo ultimamente spazio a certe rimostranze, si è rivelato in questo caso uno strumento utilissimo. Contro le violenze del regime e della polizia religiosa (negli ultimi giorni si sono verificati casi di molestie e violenze sessuali ai danni delle manifestanti) le donne di tutto il mondo hanno postato clip video in cui simbolicamente si tagliavano una ciocca di capelli. Sull’onda di questo sostegno internazionale alla causa delle donne iraniane cosa possiamo fare noi occidentali? “Non dobbiamo spegnere la luce – ha risposto con sicurezza la prof.ssa Abu Salem – Siamo abituati a gettare queste situazioni nel dimenticatoio quando iniziamo a sentirne parlare di meno. Invece noi dobbiamo essere l’eco di questo grido di libertà e far sì che si riverberi ovunque. Dobbiamo dialogare sulla questione e non soltanto nei nostri salotti, ma coinvolgendo pensatori direttamente interessati dalla vicenda, come quelli iraniani. È il confronto che può far cambiare le idee. Le dittature ne hanno paura, perché confrontarsi vuol dire estendere il proprio pensiero e magari raggiungere la consapevolezza che un modo diverso di vivere è in fondo perseguibile”.

Nicola Di Nardo

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