Umanizzazione della medicina

Professionalità, responsabilità, gratuità, dedizione, sacrificio. Gli studenti che aspirano a diventare medici, pronti a fondere scienza e coscienza, sono davvero tanti. Per loro c’è un’attività ADE, “Il contributo della esperienza cristiana alla professionalità medica”, partita a marzo e con prossimi appuntamenti in modalità remota sulla piattaforma Teams di Microsoft l’1, il 22 e 29 aprile, tenuta dal prof. Antonio del Puente, ricercatore in Reumatologia alla Scuola di Medicina Federico II e dirigente medico presso l’Azienda Ospedaliera.
Quella del medico è una professione dal volto umano perché umano è l’oggetto del suo lavoro: “Uno dei temi più dibattuti oggi è quello dell’umanizzazione della medicina, una necessità che riflette innanzitutto uno stato di insoddisfazione da parte di pazienti ed operatori che non è sostanzialmente modificato dalla maggiore o minore disponibilità di risorse – comincia il docente – Le ragioni profonde di tale insoddisfazione vanno quindi riconosciute se si vuole realmente contribuire alla umanizzazione della sanità”. Determinante è “il modo in cui concepiamo la persona. L’attenzione all’altro come persona, un’attenzione che consideri fraterno il paziente che si serve, è rilevante non tanto per definire la gentilezza nei suoi confronti, ma è una condizione necessaria per la bontà tecnica del gesto professionale”. A stimolare il professore nella sua riflessione è proprio il suo lavoro quotidiano: “Noi tutti sperimentiamo nella pratica e nei rapporti quotidiani quale sia la fatica nello svolgimento del nostro lavoro in un contesto sempre più difficile – contesto in cui la persona è ridotta ad un meccanismo guasto. Il medico si concepisce spesso come un ingegnere di questo meccanismo guasto o come un impiegato che deve solo applicare una tecnica indifferente, con gli esiti che ben conosciamo. L’opposto di quell’atteggiamento di carità, gratuità che ogni persona malata vorrebbe sperimentare nel rapporto con chi l’assiste”. Ma la sensibilità e l’attenzione a determinate tematiche nasce anche “dall’amicizia con tanti colleghi che negli anni non si è limitata ad essere solo un ambito di rapporti più o meno utili, ma che è stata una provocazione reciproca a fare crescere la domanda del significato e della sostenibilità della nostra professione che tanto ci appassiona”. La cultura tecnico-scientifica “nella quale siamo immersi pretende di avere l’esclusiva della ragionevolezza e relega nell’ambito della soggettività tutto ciò che ha a che fare con la sacralità della persona e della vita, evidenze pienamente ragionevoli anche se non dimostrabili con il metodo scientifico, che costituiscono l’orizzonte nel quale la nostra vita e il nostro lavoro si pongono”. Un orizzonte, “il cui venir meno toglie ragionevolezza ad ogni considerazione fraterna verso l’altro. Questa limitazione della ragione è alla radice della pretesa di autosufficienza dei nostri ambiti professionali e riduce il lavoro ad una dimensione meccanica, autoreferenziale, inadeguata”. È necessario, dunque, un cambio di prospettiva: “Occorre abbandonare una visione del nostro ambito autosufficiente e blindato rispetto alle risorse della realtà tutta intera. Occorre spalancare il nostro ambito professionale alle risorse della vita, a quei legami educativi che esprimono tutta l’ampiezza della esperienza umana. Il contributo della esperienza cristiana alla professionalità in ambito sanitario non è un’idea, ma è un legame educativo, una compagnia, che rende ragionevole e quindi tendenzialmente permanente ciò che tutti auspicano, ossia il guardare l’altro come persona”. Non c’è stipendio che possa adeguatamente remunerare questo tipo di lavoro e si guarda a valori professionali, mutuati dagli antichi ma che si sono perfezionati grazie alla civiltà cristiana, e con questo si arriva all’attenzione verso il paziente: “Il primo passo per suscitare e sostenere una attenzione all’altro che consenta una prestazione efficace è proprio il riconoscimento leale e realistico che i vari aspetti della realtà umana non sono autosufficienti e che quindi la nostra professione, se si chiude, non ha in sé le potenzialità per farcela. Il riconoscersi non autoreferenziali è il riconoscimento della ricchezza della realtà, anche professionale”. 
Come si riconduce il discorso del docente ai giorni che stiamo vivendo? In un contesto in cui la sofferenza umana è sotto gli occhi di tutti e i medici soffrono e rischiano insieme ai loro pazienti: “La recente pandemia evidenzia una condizione di angoscia e precarietà che è da sempre compagna del nostro percorso, ma che tendiamo a nascondere come se fosse una vergogna. Invece la consapevolezza di questa condizione gioca un ruolo indispensabile affinché possiamo diventare veramente umani, cioè acquistare maturità, profondità. Ci rivela l’inganno della nostra pretesa di autosufficienza che ci rende isolati, aridi, superficiali. Essere bisognosi non è una maledizione, ma è il segno della nostra nobiltà”. 
Perché, dunque, iscriversi o meno a Medicina? E cosa, un buono studente di Medicina, non dovrebbe mai trascurare secondo il docente? “La questione mi pare che non si limiti alla professione medica. Questa posizione rappresenta un importante paradigma per tutti gli ambienti lavorativi e per una società multiculturale – risponde identificando, poi, una parola chiave che è dialogo – L’interazione sociale non può basarsi sull’indifferenza, ma sul dialogo, essere disponibili ad apprendere, non senza autolimitazione. Un atteggiamento costruttivo, quindi, è caratterizzato dalla comunicazione, dalla narrazione di ciò che si è, con i fatti”. Quella che il giovane laureato in Medicina si trova ad affrontare oggi è “una sfida senza precedenti, ma che vale per ogni ambito lavorativo, paradigmatica di una difficoltà che coinvolge tutto il mondo moderno. Eppure, sono proprio questi passaggi cruciali che forniscono l’occasione per una ripresa innovativa. Se sapremo aprire i vasti campi della nostra attività attingendo alle risorse della vita tutta intera, saremo innanzitutto più efficaci che mai nel servizio che ci viene chiesto, ma rappresenteremo anche un punto di riferimento ed un suggerimento per l’intera società”.
 
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