Avvincente lezione dello scrittore, ex magistrato, Gianrico Carofiglio

“Con parole precise. L’importanza della chiarezza nella scrittura giuridica”, il titolo della lectio magistralis che ha avuto come protagonista l’ex magistrato, nonché senatore e rinomato scrittore di fama nazionale, Gianrico Carofiglio. L’evento, organizzato dall’Università Suor Orsola Benincasa, inserito nell’ambito dei seminari del Dipartimento di Scienze Giuridiche, si è tenuto il 5 maggio in diretta sulla piattaforma digitale Zoom, visto il permanere delle disposizioni di distanziamento sociale dettate dall’emergenza Covid-19. L’incontro ha attirato molta curiosità, nonostante l’anticonvenzionale fruizione, con più di 400 persone collegate. È spettato al Rettore Lucio d’Alessandro dare il benvenuto all’ospite e iniziare quindi l’incontro a distanza: “è necessario rimanere in contatto con gli studenti. Per questo motivo abbiamo voluto mantenere il nostro appuntamento con il Presidente Carofiglio, seppure in queste modalità, perché agli studenti non devono venir meno le opportunità che normalmente sarebbero state loro offerte”. Con l’augurio di poter presto tornare alla normalità e agli eventi tenuti in presenza, il Rettore ha lasciato poi la parola al prof. Tommaso Edoardo Frosini, Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche: “era nelle nostre intenzioni offrire al dott. Carofiglio un corso dedicato al tema di cui oggi tratterà, ostico per moltissimi ragazzi che da questi studi si devono poi confrontare con gli esami per la magistratura, non fosse intervenuta questa particolare situazione. Ma ci riserviamo questo onore per il prossimo anno”.
Magistrato, eletto senatore nel 2008, Carofiglio viene conosciuto dal grande pubblico nelle vesti di scrittore, a cui si dedica a tempo pieno dal 2016, dopo aver lasciato la sua carica giuridica. La sua ultima opera “La misura del tempo”, edita da Einaudi Stile Libero, è tra le candidature al Premio Strega 2020. Nel 2015 pubblica invece “Con parole precise. Breviario di scrittura civile”, un’opera di settore, di cui in questo incontro riprende le fila per spiegare la macchinosa relazione fra linguaggio tecnico e potere. “Non è possibile riportare tutto alla semplicità, ma si deve puntare sempre al più comprensibile possibile, o, meglio, al meno incomprensibile possibile”, dice, avviando così la sua spiegazione su quanto sia di primaria importanza la chiarezza e la precisione in qualsiasi tipo di testo, ma in particolar modo nei testi giuridici. Si riferisce alla lingua del diritto come ad un linguaggio di casta, volutamente contorto e fumoso, capace di innalzare muri e creare ambiguità, piuttosto che mettere chiarezza tra i concetti. Per spiegare al meglio ciò cui si riferisce, Carofiglio legge al pubblico in ascolto una citazione da un manuale di diritto: un concetto lungo 85 parole, senza alcun punto. Un grumo espressivo fatto di metafore bizzarre non necessarie, errori grammaticali soprattutto di concordatio e l’abuso di subordinate, ma il cui difetto principale è senz’altro l’inutile prolissità. “Non significa che ogni elemento di complessità del discorso giuridico possa essere sostituito da espressioni del linguaggio comune” ma è altrettanto vero, spiega, che molti dei concetti espressi nel diritto con pseudo-tecnicismi, latinismi, metafore ed espressioni voluttuose possono essere espressi con soluzioni di uso comune, più comprensibili e dirette. Un esempio: nei suoi primi anni di carriera in magistratura, si utilizzava frequentemente il termine escursione, che tanto piaceva ai giuristi, ma che sarebbe potuto essere esplicitato con audizione o interrogatorio. Le ragioni per questo genere di atteggiamenti condivisi in questo ambito sono molteplici. Carofiglio ne individua in particolare tre, la pigrizia del gergo prima fra tutte. Si tratta infatti di un linguaggio talmente tecnico da rimanere circoscritto ad un determinato uditorio, che non vede nella sua complessità e prolissità necessariamente un limite, ma anzi ne coglie il vantaggio del non dover essere sempre dettagliato e specifico nell’esplicazione di alcuni concetti. “È comoda perché consente di sfuggire al dovere del giurista, cioè separare elementi, distinguere i concetti, essere specifico e diretto. E se il mondo esterno non capisce, pazienza”. Questo porta alla seconda caratteristica, la voluta oscurità del linguaggio: esistono soluzioni all’ambiguità e sono il cercare e lo scegliere determinate parole piuttosto che altre. La responsabilità della scelta delle parole appartiene solo a chi parla, che può talvolta preferire soluzioni più lunghe e articolate solo per un piacere personale, per un sentirsi ancora più complice del mondo di cui fa parte, e in qualche modo per lisciare il proprio ego. La terza caratteristica del linguaggio giuridico è chiave per le precedenti, ne spiega l’essenza, ed è l’esercizio del potere, che non si limita ad essere qualcosa rilegata agli intellettuali, ma manifesta un suo riscontro anche nella vita sociale, in coloro che non capiranno nulla di quei testi cui sarebbero indirizzati “per citare John Searl – dice Carofiglio – cerco di seguire una massima semplice: se non lo posso esporre con chiarezza, non lo posso nemmeno comprendere io stesso”.
La lectio magistralis si è poi conclusa con alcune domande sul tema discusso, la prima formulata dal prof. Frosini: “Le è mai venuta l’orticaria in Parlamento leggendo un testo di legge ostico e pressoché incomprensibile, che con tutta probabilità la gente non dell’ambito non comprenderà?”. “Assolutamente – ha risposto Carofiglio – Si discute a lungo sui testi, poi vengono emendati, rielaborati da tante persone diverse che ne viene fuori un testo finale più incomprensibile di quello iniziale, volutamente ambiguo in prospettiva delle future modifiche”. Alla domanda di Aldo Iannotti della Valle, avvocato e dottorando di ricerca al Suor Orsola, riguardo al sempre più frequente utilizzo di espressioni straniere, volutamente complesse per rafforzare quel linguaggio di casta a cui Carofiglio faceva riferimento, lo scrittore risponde che lo trova un linguaggio inefficiente e inconcludente, due caratteristiche che non dovrebbero appartenere al linguaggio in nessuna sua applicazione, men che meno nell’ambito giuridico, “eppure molti di quelli che si dicono d’accordo con quanto detto alla fine sono tra coloro che riprendono espressioni di quel genere”. Infine Federico Fusco, collaboratore del prof. Luca Calcaterra, pone una questione cara a chi nell’ambiente giuridico continua a preferire il linguaggio complesso e intricato a quello semplice e lineare, per sentirsi parte di un gruppo definito di professionisti, e chiede se, considerando eminenti figure della letteratura come Proust o D’Annunzio, dalla scrittura prolissa e articolata, si possa in qualche modo valorizzare questo stile e diventare un ‘Proust’ del diritto. “A loro dico buona fortuna – risponde Carofiglio – Il punto è che non sappiamo prima se siamo davvero dei geni e soprattutto ciò che sta dicendo è vero per quanto riguarda la scrittura creativa, ma non vale nello stesso modo se si considera il diritto, che necessita di chiarezza e quindi di brevità. Poi ci può essere un Proust del diritto, che fa della scrittura oscura la propria cifra stilistica, ma non so se quel modo di scrivere sia indispensabile e non trovo una buona idea trarre dei modelli generali da casi particolari”.
 
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