Gli occhi sul Policlinico: le foto in camice bianco di Gaetano Giampaglia

I primi scatti risalgono al Liceo, per un progetto che ha coinvolto tecnici della RAI. Davanti all’obiettivo di un ragazzino alle prime armi c’era Pompei. Gli scatti d’esordio ancora sopravvivono nelle brochure. Il panorama in Calabria è la foto d’oro appesa in camera. Il Policlinico tra i set più fotografati, in aula, agli amici di corso e in reparto, a Chirurgia pediatrica. Suo anche lo scatto di fine corso al sesto anno. In quell’occasione è servito l’autoscatto, perché davanti all’obiettivo doveva esserci anche lui. La fotografia è la compagna di viaggio di Gaetano Giampaglia, un  appassionato autodidatta dal naso rosso clown indossato per far sorridere i bimbi del reparto che frequenta da studente di Medicina e Chirurgia. Durante gli anni da universitario, la fotografia è stata l’aiuto per allenare la memoria, “soprattutto per studiare Anatomia”, l’alleata per guadagnare qualche risparmio lavorando a battesimi, comunioni e feste private, la partner con cui girare l’Europa in lungo e in largo. A proposito, nel curriculum del girovago c’è anche un attentato scampato per un’ora, a Istanbul. Mamma Giampaglia lo ricorderà sicuramente: “mi telefonò piangendo, non capivo cosa era successo”. La laurea è a pochi passi, ma non dice esattamente quando, “scusami, so’ scaramantico”. Il post laurea? “Riprendere tutti i progetti fotografici lasciati in sospeso”. Con l’unica macchina fotografica possibile: “sempre e solo Canon”.     
Gaetano, quando inizia la tua avventura con la fotografia?
“Al Liceo con un progetto agli scavi di Pompei. Ho seguito un corso con fotografi e direttori della fotografia della RAI al quale ha fatto seguito un documentario e brochure che ancora oggi si trovano agli scavi. Da allora ho iniziato a seguire corsi on-line e a specializzarmi da autodidatta”. 
Perché proseguire?
“Abituati alle foto con i cellulari, quando si impugna una reflex ci si interfaccia a un altro mondo. La fotografia ti permette di scorgere bei dettagli. È fatta di molta tecnica e fantasia”.
Cosa cerchi in una foto?
“Trasmettere le sensazioni che provo quando scatto”.
Cosa hai provato quando hai scattato la foto di fine sesto anno?
“Medicina è un percorso molto lungo. È stato bellissimo catturare l’attimo in cui nel viso delle persone si vedeva la sensazione di avercela fatta. C’ero anche io davanti all’obiettivo dopo aver impostato tutto da dietro al cavalletto. Forse è stata una delle mie foto migliori”.
La migliore di tutte qual è?
“Tecnicamente è un tramonto scattato in Calabria. C’è stata molta fortuna nel cogliere l’attimo in cui i raggi del sole, di un arancione molto intenso, sembravano uscire dal cielo. La considero il top perché lì la post-produzione è servita pochissimo. L’ho stampata e attaccata al muro in camera”. 
Si dice che basta una buona macchina per scattare una bella foto.
“La macchina è importante, ma serve a poco senza la giusta inquadratura e lo studio della foto prima, durante e dopo lo scatto”.
Si dice che basta internet per una buona diagnosi. 
“Molti pazienti arrivano in reparto dicendo: ‘ho letto su Google’. Tanti pensano che basti digitare dei sintomi per capire il problema e assumere in autonomia dei farmaci. In futuro se ne parlerà molto perché i rischi connessi a questa tendenza sono elevati”. 
Reparto: lì come va con la macchina fotografica?
“Sono interno in Chirurgia pediatrica. Il mio professore è Ciro Esposito, uno dei primari più giovani della Federico II, attento alle nuove tecnologie. Il professore organizza molti convegni e corsi a carattere internazionale dove vengono spiegati tramite fotografie i nuovi interventi in laparoscopia e chirurgia robotica. Qui entro in gioco io”.
Che effetto fa stare dietro la macchina durante un intervento?
“Un effetto di ambiguità. Il fotografo sa come deve immortalare, lo studente di Medicina dice quando scattare. Ovviamente ogni fotografia necessita di una notevole post-produzione per tutelare la privacy di bambini e pazienti”. 
Bambini e pazienti che ti hanno visto pure con il naso rosso…
“Sì. La clownterapia è stata un’esperienza molto bella che ho condotto soprattutto durante i primi anni di Medicina. La prospettiva del medico deve essere distaccata. Con la clownterapia, invece, si lavora sull’empatia”.
La foto più bella col camice bianco?
“Durante un intervento chirurgico il professore passò una pinza laparoscopica all’assistente. Si vede una bella luce nel passaggio di mano. La foto è stata utilizzata poi in molti congressi”.
Fotografia e studio.
“La memoria fotografica è stata fondamentale, soprattutto per lo studio dell’Anatomia. Devo tanto alla fotografia”.
Fotografia che ti ha permesso di guadagnare qualcosa. Non male in tempi di studio.
“La fotografia è bella, ma molto costosa. Ho lavorato a battesimi, comunioni e altre feste per poter investire nel mio hobby e non dipendere troppo sui miei genitori per tasse e libri, che a Medicina costano tanto. Inoltre mi ha permesso di fare tantissimi viaggi per reportage”.
Dove sei stato?
“Istanbul, una delle esperienze migliori in termini fotografici, anche se per poco sono scampato a un attentato in una piazza dove ero stato un’oretta prima. Ricordo ancora mia madre che mi chiamò piangendo. Poi ho scattato in Montenegro, Croazia, Bosnia e Svizzera. L’Italia, però, è il paese più fotogenico perché c’è un grande rapporto tra bellezze architettoniche e paesaggistiche”.
Con la laurea che ne sarà della fotografia?
“Spero mi possa accompagnare sempre. Conto di laurearmi il prima possibile per poter ritornare per più tempo dietro la macchina. Ultimamente, per impegni universitari, ho dovuto ridurre un po’ la mole di lavoro e di progetti che mi tenevano impegnato”.
Ciro Baldini
- Advertisement -




Articoli Correlati