Ci sono modi e modi di apprendere le lingue: parlando, viaggiando, studiando o addirittura recitando. È quest’ultima la modalità prescelta dalla cattedra di Lingue e Letteratura Cinese della professoressa Maria Cristina Pisciotta. È infatti sua l’idea di rielaborare il testo di Liu Shugang ‘Un morto che va a visitare i vivi’, trasformandolo nello spettacolo rappresentato al teatro Galleria Toledo il 7 e l’8 maggio: ‘48 Morto che parla’, regia di Lorenzo Montanini. Il progetto di riadattamento è al suo decimo anno. La trama questa volta si è basata su un fatto di cronaca, che racconta l’omicidio di Ye Xiaoxiao, avvenuto sull’autobus 48, a cui i passeggeri hanno assistito passivamente. Protagonisti diventano 25 studenti, che si sono calati nei personaggi, recitando in due lingue: l’italiano e il cinese. Nessuno di loro è mai stato in Cina, ma sono tutti attratti dalla cultura orientale, in particolar modo il protagonista: Mattia Di Mauro, al secondo anno di Lingue, Letterature e Culture Comparate: “studio teatro dai 16 anni. Ho cominciato a Bari, per poi trasferirmi a Napoli, perché c’era qualcosa che mi trascinava in questa città. A Bari è facile crescere, ma difficile diventare grandi. La realtà è cristallizzata, c’è poco scambio culturale. Qui è un’altra cosa”. Unico ad aver studiato recitazione, s’identifica con il personaggio interpretato: “il protagonista è una persona ambigua, con tanti passati irrisolti, che non è mai riuscito a trovare se stesso, perché nel momento in cui sta per giungere alla propria realizzazione si ferma e non riesce ad andare avanti. Tema appunto dello spettacolo è l’irrisolto, la paura di esporsi. È infatti un grido alla vita: non lasciare che ti sfugga per paura di fallire! Lui non è riuscito ad essere all’altezza, quando la situazione lo ha richiesto, ed io mi ci sento simile in questo momento”. Ritornare a conoscersi è l’aspirazione di Mattia: “nella foga di organizzare la nostra carriera, spesso ci dimentichiamo ciò che siamo. Quando non è importante la realizzazione professionale, ma restare fedeli a se stessi. Ye lo fa nel momento in cui perde la vita per difendere un vigliacco”. Della Cina c’è molto in questo spettacolo: “come la perdita dei valori antichi e della propria identità, la ricerca spasmodica dell’occidentalizzazione, che cambia abito e colore. Non a caso abbiamo recitato vestiti tutti di grigio”. Il ragazzo si è avvicinato al cinese: “perché mi piace trovare nelle altre lingue significati pertinenti a concetti che l’italiano non riesce ad esprimere pienamente, in quanto per me lingua troppo macchinosa e asettica, a differenza ad esempio dei dialetti: vivi, con un forte potenziale comunicativo”. Nel cinese, tra parlato e scritto, c’è un’enorme differenza: “parlarlo non è la cosa più facile del mondo, ma concetti come il peso si formano dall’unione di pesante e leggero, alla ricerca di immediatezza espressiva”.
Il cinese incuriosisce anche le colleghe, come Irena Buha: “ho una vera e propria passione per le lingue. Ne parlo bene cinque: ucraino, russo, inglese, francese, italiano. Questo è un momento storico in cui sono indispensabili, non solo per lavoro, ma anche per viaggiare”. Vorrebbe vivere in Cina Jonida Kerciku: “Sono albanese ed abito in un paesino in provincia di Benevento. Vorrei soggiornare almeno per un po’ di tempo in Oriente. Questo laboratorio per me è stato un modo alternativo e divertente per apprendere il cinese, lingua di un Paese che ammiro molto”. Anche Imma Formisano ritiene che l’esperienza teatrale sia stata molto formativa: “instauri rapporti con persone a cui non facevi neanche caso all’Università, che poi diventano fratelli e sorelle durante lo spettacolo. Ho scelto il cinese per caso: volevo studiare arabo e francese. Avvicinandomi alla cultura e al teatro, ho iniziato a studiare anche la lingua, ed ora non posso farne a meno”.
Al terzo anno Alberto Sperindio, veterano, in quanto già reduce dall’esperienza laboratoriale dell’anno precedente: “abbiamo partecipato a tutte le fasi dello spettacolo, dal montaggio alla messa in scena. Ovviamente possono partecipare gli studenti almeno al secondo anno di cinese, perché è una lingua difficile da praticare, anche sul palco. Al primo anno ne hai solo un’infarinatura generale. Mi ci sono avvicinato tramite gli scritti del giornalista Terzani. Purtroppo della Cina arriva sempre poco qui da noi, notizie parziali, poiché è una parte del mondo che viene raramente affrontata, anche dai libri di storia del liceo, mentre loro studiano molto la cultura occidentale”. Del tutto inusuale la motivazione che ha portato allo studio del cinese la collega Simona Brunitto: “tutti mi dicono che ho dei tratti del viso orientali. Un po’ condizionata da questo, ho iniziato a documentarmi sulla Cina, tramite libri e filmati. Guardando quegli occhi così espressivi, ho deciso di indagarne le motivazioni, cercandole nella storia di questo Paese”. Lo spettacolo per Simona è una dimostrazione di come culture totalmente opposte possano incontrarsi e coesistere: “oltre alle due lingue, le battute sono in napoletano e barese. Il cinese richiede impegno, non lo si può prendere sotto gamba: o lo ami o lo odi. Per studiarlo da noi, bisogna essere molto determinati, perché i corsi sono organizzati dalle 8 del mattino alle sei di sera, con lunghe pause intermedie”.
Lo studio del cinese per Stefano D’Aponte, al terzo anno di Culture Orientali e africane, è stata una scelta fortunata: “mi sono detto: proviamo! Per poi innamorarmi di lingua e cultura. I nostri spettacoli si rivolgono specialmente a chi comprende la lingua, ma aperti a chiunque, perché molto fisici, si allontanano dalla concezione del teatro convenzionale, fatto di parole. I testi cinesi contemporanei affrontano tematiche sociali, tipo l’omertà, che riguardano disagi presenti in Cina. È un’esperienza che ripeterei, anche se impegnativa. Dall’inizio di gennaio abbiamo provato una volta a settimana per 4 ore e verso la fine full immersion”.
Il cinese incuriosisce anche le colleghe, come Irena Buha: “ho una vera e propria passione per le lingue. Ne parlo bene cinque: ucraino, russo, inglese, francese, italiano. Questo è un momento storico in cui sono indispensabili, non solo per lavoro, ma anche per viaggiare”. Vorrebbe vivere in Cina Jonida Kerciku: “Sono albanese ed abito in un paesino in provincia di Benevento. Vorrei soggiornare almeno per un po’ di tempo in Oriente. Questo laboratorio per me è stato un modo alternativo e divertente per apprendere il cinese, lingua di un Paese che ammiro molto”. Anche Imma Formisano ritiene che l’esperienza teatrale sia stata molto formativa: “instauri rapporti con persone a cui non facevi neanche caso all’Università, che poi diventano fratelli e sorelle durante lo spettacolo. Ho scelto il cinese per caso: volevo studiare arabo e francese. Avvicinandomi alla cultura e al teatro, ho iniziato a studiare anche la lingua, ed ora non posso farne a meno”.
Al terzo anno Alberto Sperindio, veterano, in quanto già reduce dall’esperienza laboratoriale dell’anno precedente: “abbiamo partecipato a tutte le fasi dello spettacolo, dal montaggio alla messa in scena. Ovviamente possono partecipare gli studenti almeno al secondo anno di cinese, perché è una lingua difficile da praticare, anche sul palco. Al primo anno ne hai solo un’infarinatura generale. Mi ci sono avvicinato tramite gli scritti del giornalista Terzani. Purtroppo della Cina arriva sempre poco qui da noi, notizie parziali, poiché è una parte del mondo che viene raramente affrontata, anche dai libri di storia del liceo, mentre loro studiano molto la cultura occidentale”. Del tutto inusuale la motivazione che ha portato allo studio del cinese la collega Simona Brunitto: “tutti mi dicono che ho dei tratti del viso orientali. Un po’ condizionata da questo, ho iniziato a documentarmi sulla Cina, tramite libri e filmati. Guardando quegli occhi così espressivi, ho deciso di indagarne le motivazioni, cercandole nella storia di questo Paese”. Lo spettacolo per Simona è una dimostrazione di come culture totalmente opposte possano incontrarsi e coesistere: “oltre alle due lingue, le battute sono in napoletano e barese. Il cinese richiede impegno, non lo si può prendere sotto gamba: o lo ami o lo odi. Per studiarlo da noi, bisogna essere molto determinati, perché i corsi sono organizzati dalle 8 del mattino alle sei di sera, con lunghe pause intermedie”.
Lo studio del cinese per Stefano D’Aponte, al terzo anno di Culture Orientali e africane, è stata una scelta fortunata: “mi sono detto: proviamo! Per poi innamorarmi di lingua e cultura. I nostri spettacoli si rivolgono specialmente a chi comprende la lingua, ma aperti a chiunque, perché molto fisici, si allontanano dalla concezione del teatro convenzionale, fatto di parole. I testi cinesi contemporanei affrontano tematiche sociali, tipo l’omertà, che riguardano disagi presenti in Cina. È un’esperienza che ripeterei, anche se impegnativa. Dall’inizio di gennaio abbiamo provato una volta a settimana per 4 ore e verso la fine full immersion”.







