“Ho invitato non solo anglisti ma italianisti, germanisti, sinologi, africanisti, americanisti, matematici e altri ancora, perché la questione della lingua tocca delle corde importanti, come l’identità, le emozioni, l’anima. Nessuno di noi può fornire una soluzione, il nostro obiettivo è quello di lanciare attraverso dei ‘flash panelists’ alcuni stimoli di riflessione in un dibattito che ha qualcosa di provocatorio”, le parole con le quali la prof.ssa Jocelyne Vincent Marrelli, docente di Lingua e Linguistica Inglese, apre il convegno Inglese: lingua minaccia o minacciata? Una giornata, quella del 31 ottobre, che la prof.ssa Vincent ha fortemente voluto in occasione del suo pensionamento, dopo 41 anni di permanenza a L’Orientale. A rompere il ghiaccio l’intervento del prof. Guido Trombetti, Assessore all’Università e alla Ricerca Scientifica della Regione Campania: “io sono un matematico. Da quarant’anni, scrivevo e scrivo i miei lavori in inglese, perché è questa la lingua dominante nel mondo delle scienze. L’inglese rappresenta una forma diffusa di ‘passaporto’: se parli inglese, te la cavi sempre, si sa. Ciononostante, nutro delle fortissime perplessità in merito all’introduzione di Corsi di Laurea in lingua inglese nell’università italiana, innanzitutto per un motivo culturale, perché ciò potrebbe causare dei seri danni alla lingua italiana in quanto fattore identitario”. Seguono i saluti e le considerazioni del prof. Massimo Marrelli, Rettore uscente della Federico II: “sono cresciuto nel mondo anglosassone, eppure non ritengo di saper parlare l’inglese. Parlo piuttosto una lingua strana, intanto gli inglesi ‘native speaker’ mi dicono: ‘fai gli errori giusti’. Ci sono errori che rendono la frase incomprensibile, altri – pur essendo scorretti – fanno capire il senso di ciò che si sta dicendo ed è questa è la vera minaccia che si sta profilando contro la lingua inglese standard, perché i cosiddetti errori corretti diventano poi lingua condivisa. Se l’inglese è una minaccia per l’italiano? No, se la quarta lingua più insegnata nelle università mondiali è proprio la nostra. In questo momento, la globalizzazione fa sì che prendano piede le cose idiosincratiche, cioè i prodotti che hanno valore perché interpretano la cultura locale e lo spiritus loci. Un esempio per intenderci: i pastori di San Gregorio Armeno. Se andate a Shanghai, trovate pastori fatti mille volte meglio, ma non hanno lo stesso valore di quelli napoletani, perché non custodiscono tradizione e cultura. Anche lo studio della lingua deve valorizzare l’idiosincraticità, e quindi la circolazione degli errori corretti, per agevolare la comunicazione”.
L’inglese “abbocca
all’amo”
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Prende la parola la neo Rettrice de L’Orientale Elda Morlicchio: “l’immagine rappresentativa del convegno è quella di un pesce che ingoia il globo come un’esca, ma quando il pesce abbocca all’amo è la sua fine. Come il pesce, l’inglese è una lingua seriamente minacciata. Pur essendo veicolo della comunicazione internazionale, l’inglese che noi parliamo non è quello usato dai Britannici o dagli Americani, per limitarmi a queste due realtà linguistiche, ma diviene uno strumento utilizzato senza cognizione e soprattutto senza riferimento all’area culturale specifica di provenienza. Così facendo, l’inglese si riduce ad una formula per comunicare perdendo di vista il retroterra culturale della cosiddetta lingua di Shakespeare”. Se l’inglese è minacciato dalle ‘storpiature’ praticate dai locutori mondiali a causa della sua duttilità, è nel contempo una minaccia per gli stessi parlanti anglofoni: “nell’illusione di poter comunicare con tutto il mondo, l’inglese nativo non è stimolato all’apprendimento delle altre lingue”, dice la docente di Lingua e Linguistica tedesca.
CORSI ESCLUSIVAMENTE IN LINGUA INGLESE: PRO E CONTRO. “Pur essendo L’Orientale l’università dove si insegnano le lingue straniere, non riteniamo opportuno introdurre corsi esclusivamente in lingua inglese, perché una lingua si definisce nel tramite tra l’individuo e la realtà esterna. Certo, noi abbiamo il problema di dover attrarre studenti dall’estero, ma si dovrebbero offrire lezioni in lingua inglese solo nella fase iniziale per poi insegnare nella lingua del posto, come funziona in Germania”, fa presente la prof.ssa Morlicchio. In linea con le parole della Rettrice, il discorso della prof.ssa Annamaria Lamarra, docente in Letteratura inglese e direttrice del Centro linguistico della Federico II: “da lingua veicolare l’inglese è diventato pomo della discordia in relazione alle lingue nazionali. La scarsa presenza di studenti stranieri a Napoli è dovuta a carenze strutturali, risorse economiche e problemi di fondi piuttosto che all’assenza di Corsi di Laurea in lingua inglese negli atenei napoletani”. Si esprime a proposito il prof. Nicola De Blasi, italianista alla Federico II: “il cambiamento di prestigio di una lingua spesso comincia per un effetto a valanga: se si comincia a cacciare l’italiano dalle università, iniziando a promuovere corsi esclusivamente in lingua inglese, si potrebbe pensare che la lingua italiana non sia idonea a trasmettere determinati contenuti e che sia dunque una lingua di serie b”. Fa parte del comitato organizzativo dell’evento anche la prof.ssa Michela Cennamo, docente in Linguistica generale presso la Federico II: “il problema è ‘quale varietà d’inglese insegnare?’. Dobbiamo aprirci al diverso e capire come implementare il multilinguismo”. Aggiunge la prof.ssa Rosa Maria Bollettieri Bosinelli, docente di Lingua Inglese presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori a Forlì: “non temo che insegnare in inglese impoverisca l’italiano, ma temo che se si insegna un inglese che non comunica, i valori culturali veicolati dalla lingua non si trasmettono. Il problema dei nostri studenti è che non conoscono troppo bene l’italiano e che l’invasione incontrollata dei mezzi delle nuove tecnologie non è sempre un arricchimento per loro, se il linguaggio degli sms li condiziona a livelli altissimi”.
CORSI ESCLUSIVAMENTE IN LINGUA INGLESE: PRO E CONTRO. “Pur essendo L’Orientale l’università dove si insegnano le lingue straniere, non riteniamo opportuno introdurre corsi esclusivamente in lingua inglese, perché una lingua si definisce nel tramite tra l’individuo e la realtà esterna. Certo, noi abbiamo il problema di dover attrarre studenti dall’estero, ma si dovrebbero offrire lezioni in lingua inglese solo nella fase iniziale per poi insegnare nella lingua del posto, come funziona in Germania”, fa presente la prof.ssa Morlicchio. In linea con le parole della Rettrice, il discorso della prof.ssa Annamaria Lamarra, docente in Letteratura inglese e direttrice del Centro linguistico della Federico II: “da lingua veicolare l’inglese è diventato pomo della discordia in relazione alle lingue nazionali. La scarsa presenza di studenti stranieri a Napoli è dovuta a carenze strutturali, risorse economiche e problemi di fondi piuttosto che all’assenza di Corsi di Laurea in lingua inglese negli atenei napoletani”. Si esprime a proposito il prof. Nicola De Blasi, italianista alla Federico II: “il cambiamento di prestigio di una lingua spesso comincia per un effetto a valanga: se si comincia a cacciare l’italiano dalle università, iniziando a promuovere corsi esclusivamente in lingua inglese, si potrebbe pensare che la lingua italiana non sia idonea a trasmettere determinati contenuti e che sia dunque una lingua di serie b”. Fa parte del comitato organizzativo dell’evento anche la prof.ssa Michela Cennamo, docente in Linguistica generale presso la Federico II: “il problema è ‘quale varietà d’inglese insegnare?’. Dobbiamo aprirci al diverso e capire come implementare il multilinguismo”. Aggiunge la prof.ssa Rosa Maria Bollettieri Bosinelli, docente di Lingua Inglese presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori a Forlì: “non temo che insegnare in inglese impoverisca l’italiano, ma temo che se si insegna un inglese che non comunica, i valori culturali veicolati dalla lingua non si trasmettono. Il problema dei nostri studenti è che non conoscono troppo bene l’italiano e che l’invasione incontrollata dei mezzi delle nuove tecnologie non è sempre un arricchimento per loro, se il linguaggio degli sms li condiziona a livelli altissimi”.
La parola agli italianisti
“L’italiano non è minacciato dagli inglesi, ma dagli stessi italiani – sostiene il prof. De Blasi, docente di Storia della lingua italiana alla Federico II – Affermare che il lessico inglese minacci quello italiano significa perdere di vista che la fortuna delle lingue è affidata ai parlanti. Come qualsiasi oggetto culturale, la lingua richiede manutenzione, il che non significa chiusura verso l’esterno”. In rappresentanza dell’Accademia della Crusca, parla la prof.ssa Rita Librandi, docente di Linguistica italiana e Storia della lingua italiana a L’Orientale: “L’avere una lingua unitaria come l’inglese nel settore della ricerca può costituire un vantaggio e in contemporanea anche un rischio perchè potrebbe danneggiare le lingue locali nella formazione del lessico: se una lingua non è più in grado di produrre tecnicismi con estrema velocità, quella lingua è a rischio e potrebbe diventare un dialetto”.
Commenta l’immagine della locandina anche il prof. Gordon Poole, esperto in Lingua e Letteratura anglo-americana, già docente presso L’Orientale: “è vero che il pesciolino abbocca, ma, se è intelligente, spolpa tutto ciò che gli serve dall’esca e si arricchisce, ma non muore. In una visione imperialista, l’inglese ingloba le altre lingue, ma la sua diffusione non è imposta con la forza, è inevitabile. Avrei preferito che la lingua veicolare fosse il latino, che almeno è una lingua morta e ha il vantaggio di non essere soggetta a modifiche”. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’intervento di Roy Boardman, ex Direttore del British Council di Napoli, teso a sottolineare come l’inglese possa costituire una minaccia per coloro che decidono di intraprenderne lo studio attraverso la speculazione che si fa intorno ai manuali di testo e a tutto il materiale didattico, senza trascurare il business che ruota intorno alle certificazioni internazionali. Altri studiosi, invece, come il prof. Guy Aston, docente di Lingua e Linguistica inglese presso l’Università degli Studi di Bologna, si soffermano sulla parola ‘minaccia’: “una lingua può diventare un pericolo per le altre se prevale in più contesti d’uso, ma a volte si tratta di una paranoia, come nei paesi danesi dove c’è un plurilinguismo diffuso”. Partecipa al dibattito la prof.ssa Carla Cristilli, docente di Linguistica generale a L’Orientale: “Il problema non riguarda solo le lingue standard, ma anche l’inglese stesso, perché si sta ibridando a causa della semplificazione operata dalla sua macro-diffusione, il cosiddetto ‘broken English’”. Segue l’intervento del prof. Roberto Tottoli, docente in Islamistica a L’Orientale, Direttore del Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo: “La ricezione di un testo in inglese ha un impatto diverso, perché tocca un pubblico più ampio e questo è un percorso storico ineludibile anche nel rapporto dell’inglese con la falange orientalistica, si pensi all’India e all’Estremo Oriente”. Se è assodato che l’inglese ha assunto il ruolo di lingua unica di comunicazione per le pubblicazioni nei settori tecnico-scientifici, negli ultimi tempi quest’idea è subentrata anche in discipline di ambito umanistico. “I segnali d’allarme sono visibili nelle pubblicazioni scientifiche in ambito accademico a livello internazionale. L’inglese è diventato una lingua creola per rivolgersi a tutto il mondo. Infatti, molti autori non anglofoni scrivono in inglese”, dice il ProRettore de L’Orientale Giorgio Banti, docente in Linguistica generale e Lingua e Letteratura somala. “Un altro aspetto da considerare è che l’inglese sia una lingua policentrica differenziata a livello geografico e rinvii sempre ad un doppio standard, ‘British’ or ‘American’”, riferisce il glottologo e continua “la lingua non è solo uno strumento, ma contiene dei valori culturali e si diffonde anche in base all’egemonia economica di alcune potenze: il rapporto tra l’inglese e le lingue minoritarie è un difficile equilibrio tra i due poli”. La preponderanza dell’inglese coinvolge problemi non solo di ordine economico e politico ma anche socioculturale: “il ruolo dell’inglese potrebbe a lungo svuotare le culture delle lingue minoritarie. Il segreto della loro sopravvivenza sta nell’integrazione tra le due compagini”, dice il prof. Sergio Baldi, docente in Lingua e Letteratura Hausa e Lingue sudanesi presso L’Orientale.
Insieme al prof. Baldi, il collega Mahmoud Adam si sofferma sulla situazione dell’inglese in Africa nel suo ruolo di lingua ‘neutrale’ tra i diversi popoli: “Se nei paesi asiatici c’erano lingue ufficiali prima dell’insediamento del colonialismo, in Africa non esistevano lingue predominanti. Dopo l’indipendenza, negli anni ’50, la pressione dell’inglese è stata dirompente: in questi paesi, i bambini apprendono l’inglese già dall’asilo, ciononostante anche esso non poteva sopravvivere all’africanizzazione. I concetti e i proverbi provenienti dalle culture africane sono penetrati nell’inglese pidgin parlato negli stati africani”. Anche la prof.ssa Livia Apa, docente in Lingua e Letteratura portoghese de L’Orientale, si sofferma sull’inglese che sopravanza sulle lingue di espansione coloniale: “il portoghese è lingua ufficiale in nove paesi a cui si è aggiunta di recente la Guinea Equatoriale e non è lingua minoritaria se è parlata da 260 milioni di persone nel mondo. È agghiacciante l’idea di lingua ‘pura’ diffusa a livello mondiale solo perché soggiacente alle politiche culturali dei colossi occidentali”. Altrettanto interessato a decifrare la questione dell’inglese e le sue propaggini coloniali è il prof. Maurizio Gnerre, docente in Etnolinguistica, Antropologia culturale e Linguistica generale a L’Orientale: “stiamo parlando di storie che grondano di sangue, sopraffazione, morte e lingue che si estinguono. Le lingue minoritarie delle comunità che parlano varietà sperdute e remote dell’inglese di stampo coloniale sono minacciate da modelli forti, in parte provenienti dall’Inghilterra, ma prevalentemente dagli Stati Uniti”. Con l’atlante mondiale delle lingue alla mano, il prof. Maury René Georges, docente in Geografia regionale e umana, illustra i dati ufficiali: “l’inglese è al terzo posto nelle lingue più parlate a livello mondiale (circa due miliardi di persone), mentre è il cinese la prima lingua ufficiale per numero di parlanti, seguito dall’hindi. In Europa, malgrado sia lingua della comunicazione internazionale, invece, l’inglese è la quarta/quinta lingua nazionale dopo i tedesco, il turco, il russo, il francese e forse l’italiano! Ma in realtà tutti parlano inglese”. Approfondisce la questione del rapporto tra lingua inglese e lingua cinese la prof.ssa Annamaria Palermo, sinologa: l’inglese non è una minaccia per i paesi di lingua cinese che è “una lingua etnocentrica parlata da un miliardo e 300 milioni di persone, non solo in Cina, ma anche in Singapore e Taiwan. Il cinese si è avvicinato all’inglese per ragioni didattiche fin dagli anni ’60, siccome sia i libri di testo sia i dizionari erano in lingua inglese-cinese. Come l’inglese, anche la Cina è un modello di imperialismo perché, sebbene comprenda più di 154 dialetti, nelle università si insegna solo il mandarino”.
Sabrina Sabatino
Commenta l’immagine della locandina anche il prof. Gordon Poole, esperto in Lingua e Letteratura anglo-americana, già docente presso L’Orientale: “è vero che il pesciolino abbocca, ma, se è intelligente, spolpa tutto ciò che gli serve dall’esca e si arricchisce, ma non muore. In una visione imperialista, l’inglese ingloba le altre lingue, ma la sua diffusione non è imposta con la forza, è inevitabile. Avrei preferito che la lingua veicolare fosse il latino, che almeno è una lingua morta e ha il vantaggio di non essere soggetta a modifiche”. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’intervento di Roy Boardman, ex Direttore del British Council di Napoli, teso a sottolineare come l’inglese possa costituire una minaccia per coloro che decidono di intraprenderne lo studio attraverso la speculazione che si fa intorno ai manuali di testo e a tutto il materiale didattico, senza trascurare il business che ruota intorno alle certificazioni internazionali. Altri studiosi, invece, come il prof. Guy Aston, docente di Lingua e Linguistica inglese presso l’Università degli Studi di Bologna, si soffermano sulla parola ‘minaccia’: “una lingua può diventare un pericolo per le altre se prevale in più contesti d’uso, ma a volte si tratta di una paranoia, come nei paesi danesi dove c’è un plurilinguismo diffuso”. Partecipa al dibattito la prof.ssa Carla Cristilli, docente di Linguistica generale a L’Orientale: “Il problema non riguarda solo le lingue standard, ma anche l’inglese stesso, perché si sta ibridando a causa della semplificazione operata dalla sua macro-diffusione, il cosiddetto ‘broken English’”. Segue l’intervento del prof. Roberto Tottoli, docente in Islamistica a L’Orientale, Direttore del Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo: “La ricezione di un testo in inglese ha un impatto diverso, perché tocca un pubblico più ampio e questo è un percorso storico ineludibile anche nel rapporto dell’inglese con la falange orientalistica, si pensi all’India e all’Estremo Oriente”. Se è assodato che l’inglese ha assunto il ruolo di lingua unica di comunicazione per le pubblicazioni nei settori tecnico-scientifici, negli ultimi tempi quest’idea è subentrata anche in discipline di ambito umanistico. “I segnali d’allarme sono visibili nelle pubblicazioni scientifiche in ambito accademico a livello internazionale. L’inglese è diventato una lingua creola per rivolgersi a tutto il mondo. Infatti, molti autori non anglofoni scrivono in inglese”, dice il ProRettore de L’Orientale Giorgio Banti, docente in Linguistica generale e Lingua e Letteratura somala. “Un altro aspetto da considerare è che l’inglese sia una lingua policentrica differenziata a livello geografico e rinvii sempre ad un doppio standard, ‘British’ or ‘American’”, riferisce il glottologo e continua “la lingua non è solo uno strumento, ma contiene dei valori culturali e si diffonde anche in base all’egemonia economica di alcune potenze: il rapporto tra l’inglese e le lingue minoritarie è un difficile equilibrio tra i due poli”. La preponderanza dell’inglese coinvolge problemi non solo di ordine economico e politico ma anche socioculturale: “il ruolo dell’inglese potrebbe a lungo svuotare le culture delle lingue minoritarie. Il segreto della loro sopravvivenza sta nell’integrazione tra le due compagini”, dice il prof. Sergio Baldi, docente in Lingua e Letteratura Hausa e Lingue sudanesi presso L’Orientale.
Insieme al prof. Baldi, il collega Mahmoud Adam si sofferma sulla situazione dell’inglese in Africa nel suo ruolo di lingua ‘neutrale’ tra i diversi popoli: “Se nei paesi asiatici c’erano lingue ufficiali prima dell’insediamento del colonialismo, in Africa non esistevano lingue predominanti. Dopo l’indipendenza, negli anni ’50, la pressione dell’inglese è stata dirompente: in questi paesi, i bambini apprendono l’inglese già dall’asilo, ciononostante anche esso non poteva sopravvivere all’africanizzazione. I concetti e i proverbi provenienti dalle culture africane sono penetrati nell’inglese pidgin parlato negli stati africani”. Anche la prof.ssa Livia Apa, docente in Lingua e Letteratura portoghese de L’Orientale, si sofferma sull’inglese che sopravanza sulle lingue di espansione coloniale: “il portoghese è lingua ufficiale in nove paesi a cui si è aggiunta di recente la Guinea Equatoriale e non è lingua minoritaria se è parlata da 260 milioni di persone nel mondo. È agghiacciante l’idea di lingua ‘pura’ diffusa a livello mondiale solo perché soggiacente alle politiche culturali dei colossi occidentali”. Altrettanto interessato a decifrare la questione dell’inglese e le sue propaggini coloniali è il prof. Maurizio Gnerre, docente in Etnolinguistica, Antropologia culturale e Linguistica generale a L’Orientale: “stiamo parlando di storie che grondano di sangue, sopraffazione, morte e lingue che si estinguono. Le lingue minoritarie delle comunità che parlano varietà sperdute e remote dell’inglese di stampo coloniale sono minacciate da modelli forti, in parte provenienti dall’Inghilterra, ma prevalentemente dagli Stati Uniti”. Con l’atlante mondiale delle lingue alla mano, il prof. Maury René Georges, docente in Geografia regionale e umana, illustra i dati ufficiali: “l’inglese è al terzo posto nelle lingue più parlate a livello mondiale (circa due miliardi di persone), mentre è il cinese la prima lingua ufficiale per numero di parlanti, seguito dall’hindi. In Europa, malgrado sia lingua della comunicazione internazionale, invece, l’inglese è la quarta/quinta lingua nazionale dopo i tedesco, il turco, il russo, il francese e forse l’italiano! Ma in realtà tutti parlano inglese”. Approfondisce la questione del rapporto tra lingua inglese e lingua cinese la prof.ssa Annamaria Palermo, sinologa: l’inglese non è una minaccia per i paesi di lingua cinese che è “una lingua etnocentrica parlata da un miliardo e 300 milioni di persone, non solo in Cina, ma anche in Singapore e Taiwan. Il cinese si è avvicinato all’inglese per ragioni didattiche fin dagli anni ’60, siccome sia i libri di testo sia i dizionari erano in lingua inglese-cinese. Come l’inglese, anche la Cina è un modello di imperialismo perché, sebbene comprenda più di 154 dialetti, nelle università si insegna solo il mandarino”.
Sabrina Sabatino







