Non ‘tifare’, ma capire: è questo che ha spinto molti studenti a partecipare, tanto che l’Aula Gaetano Liccardo di Scienze Politiche il 26 novembre ha registrato il tutto esaurito come nelle giornate d’appello. Non per un esame, ma per un confronto pubblico dal titolo ‘Palestina: passato, presente e futuro’, proposto dagli studenti e accolto dal Direttore del Dipartimento, il prof. Francesco Eriberto D’Ippolito, che ha aperto i lavori con una premessa netta: “Di fronte alla barbarie, l’opinione pubblica resta l’unico vero freno ai dittatori”.
L’obiettivo della giornata è apparso subito chiaro: andare oltre slogan e schieramenti, riportando la questione israelo-palestinese dentro gli strumenti dell’analisi scientifica. Attorno al tavolo si sono alternati i docenti relatori.
Tema più incandescente, quello sulla qualificazione giuridica del conflitto. La prof.ssa Ida Caracciolo, docente di Diritto Internazionale, citando i procedimenti in corso davanti alle Corti internazionali, ha rimesso al centro il nodo giuridico: “La parola genocidio richiede la prova dell’intento di distruggere un gruppo. È una delle prove più difficili da dimostrare.
Oggi ci sono indagini per crimini di guerra da entrambe le parti, ma il genocidio deve essere provato con rigore, non evocato come categoria morale”. Se il diritto lavora sui testi, la storia prova ad allargare lo sguardo. La prof.ssa Francesca Canale Cama, che insegna Storia Contemporanea, ha invitato gli studenti a spostare la cronologia della ‘questione palestinese’ ben oltre il 1948: dallo smembramento dell’Impero ottomano ai mandati franco-britannici, dalle promesse mancate alla nascita degli Stati arabi, fino alla decolonizzazione e alla guerra fredda.
“Gaza – ha detto – è la punta dell’iceberg di processi globali che intrecciano imperialismi, economie, energie e memorie. Memorie, appunto: quelle della Shoah, al centro del racconto europeo, e quelle della Nakba, l’esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi nel 1948, quasi assente nei manuali e nello spazio pubblico occidentale”. Una asimmetria delle narrazioni che, continua Cama, “alimenta lo squilibrio anche nel presente. Da qui l’interesse per approcci come la global history e gli studi sul colonialismo d’insediamento”.
Sullo sfondo delle lunghe durate storiche, il prof. Gianpaolo Ferraioli, docente di Storia delle Relazioni Internazionali, ha scelto un taglio realistico. Tracciando una linea dal tardo Ottocento ad oggi, ha ripercorso le “occasioni perdute” dalla leadership araba e palestinese: dal rifiuto del compromesso Faisal-Weizmann del 1919 alla bocciatura del piano di spartizione ONU del 1947, dai giochi di potere dei Paesi arabi alla scelta di Hamas come guida di Gaza dopo il ritiro israeliano del 2005. “Possiamo parlare di tragedie, crimini, sangue inutile. Ma il lessico non può essere guidato dall’emotività”.
Il racconto mediatico del conflitto
Di parole – e di come possono manipolare la percezione – ha parlato a lungo anche il prof. Diego Giannone, docente di Scienza politica che ha analizzato il racconto mediatico occidentale del conflitto: uso sistematico della forma passiva (“sono morti…”) che cancella i responsabili, eufemismi (“forza di difesa israeliana”) che nascondono il ruolo di potenza occupante, silenzi sui territori occupati. Citato Orwell e la distopia linguistica di ‘1984’, il prof. Giannone ha messo in guardia dall’ossimoro “la guerra è pace”: “una pace – spiega Giannone – che non garantisce autodeterminazione non affronta la questione degli insediamenti e non definisce un futuro Stato palestinese rischia di essere poco più di un armistizio.
La deumanizzazione dei palestinesi – ridotti a numeri o a terroristi – rende difficile immaginare per loro un progetto politico autentico”. La dott.ssa Anna Marotta, ricercatrice di Diritto Privato Comparato, ha invece spostato il focus sulle regole del vivere quotidiano: diritto di famiglia, successioni, statuti personali. “Il sistema giuridico palestinese – ha spiegato – è un mosaico di norme ereditate da diverse potenze (ottomana, britannica, giordana, egiziana, israeliana) e di diritto islamico, affiancato da pratiche consuetudinarie non ufficiali.
Emblematico il caso del ripudio unilaterale del marito, riconosciuto da un tribunale di Nablus ma non trascrivibile in Italia perché contrario all’uguaglianza di genere e al principio del contraddittorio. Un esempio concreto di quanto sia complesso, anche lontano dal fronte, tenere insieme tutela dell’identità culturale e diritti fondamentali”. Il confronto si è acceso soprattutto durante il dibattito: gli studenti hanno incalzato i relatori su responsabilità delle generazioni precedenti, adeguatezza delle categorie giuridiche, ruolo dell’Unione Europea e dell’Italia, rischio di confondere critica a Israele e antisemitismo.
Dalla platea è arrivata anche la domanda più diretta: “se le norme sul genocidio non riescono a fotografare pienamente l’orrore contemporaneo, non è forse il diritto a dover cambiare?”. I docenti hanno riconosciuto i limiti delle categorie nate nel secondo dopoguerra, ma hanno avvertito: svuotare di significato concetti come genocidio, guerra, pace li renderebbe inutilizzabili proprio quando servono nei tribunali. L’università, hanno ricordato, deve essere lo spazio in cui questi concetti vengono discussi, aggiornati e problematizzati, senza cedere agli schieramenti.
In chiusura, Simona Masucci, rappresentante degli studenti e promotrice dell’iniziativa, ha riportato il discorso sul terreno generazionale. “Se il passato interpella la responsabilità delle classi dirigenti e il presente è attraversato da emozioni forti – ha detto – il futuro non può che passare per la nostra capacità di studiare, di non accontentarci delle versioni pronte, di trasformare l’indignazione in conoscenza critica”. Ed è forse questa l’immagine che resta della giornata: un’aula universitaria dove, per qualche ora, la cronaca di Gaza è uscita dai social e si è seduta sui banchi, tra manuali di storia, codici di diritto e quaderni pieni di appunti. Il conflitto resta aperto, le risposte poche.
Ma la scelta degli studenti di affrontarlo con strumenti di analisi, e non solo con slogan, è già una prima, piccola, forma di presa di posizione. Comprendere non significa giustificare e prendere posizione non significa scegliere una tifoseria. Alla Vanvitelli, almeno per una mattina, la guerra è stata studiata e non urlata.
Elisabetta Del Prete
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