Alejandra, una guatemalteca napoletana, con lo spirito da globetrotter

Una storia lunga diecimila chilometri separa Alejandra Capriolo, 24 anni, neolaureata in Mediazione Linguistica e Culturale a L’Orientale, dal suo paese d’origine: il Guatemala. Il fascino della cultura maya e un amore viscerale per Napoli sono alcuni degli argomenti affrontati in un appassionato colloquio, ricco di ambizioni e sogni, sullo sfondo di paesaggi incantevoli, antiche tradizioni e costumi dai colori sgargianti, nel cuore dell’America centrale. Alejandra si racconta a ruota libera, prossima a partire per Marsiglia, città alla quale è molto legata, soprattutto per la lingua. Ne è una concreta dimostrazione il lavoro da lei svolto per l’elaborato finale con una tesi in Lingua Francese intitolata “Un’analisi linguistica e culturale del rap marsigliese”. L’ultima volta
che è stata in Guatemala, rivela, aveva solo tre anni. Concluso da poco il percorso universitario, il suo piano è trasferirsi in pianta stabile nella terra che le ha dato i natali, per “visitare tutto, dalla foresta al mare, dai vulcani alle piantagioni”, senza tralasciare ovviamente i grandiosi siti archeologici, come Tikal e le sue piramidi, patrimonio dell’UNESCO, e tutte le rovine della civiltà mesoamericana. Molti non sanno, infatti, che il Guatemala è un autentico paradiso naturalistico. Lo stesso nome del paese viene da ‘Quauhtlemallan’, che in nahuatl, la lingua degli aztechi, significherebbe “luogo con molti alberi” in riferimento alle foreste tropicali. Per il resto, Alejandra non ama fare progetti a lungo termine, “la vita è piena di sorprese – dice – e non posso ancora sapere ciò che mi riserva”. È un’amante della natura col pollice verde, ma è anche molto attenta ai temi del sociale. Innata in lei è la cosiddetta sindrome di Wanderlust, un irrefrenabile desiderio di girare il mondo, portando, comunque vada, il ‘viaggio’ nel cuore, alla ricerca di una prossima avventura. Quali sono le tue origini? “Sono di origine guatemalteca, nel mio paese quando sono nata era in atto una delle più sanguinose guerre nella storia dell’America latina. Una guerra durata 36 anni, dal 1960 al 1996, che ha visto come protagonisti da un lato la popolazione povera, prevalentemente indigena, da sempre sfruttata e discriminata, e dall’altro un esercito nazionale addestrato da militari statunitensi con a capo un governo di impronta neoimperialista e latifondista. Un governo peraltro responsabile di un enorme genocidio sul quale l’Europa ha espressamente voluto chiudere gli occhi e scelto di lasciare nell’oblio”. Cosa sai sulla tua nascita? “Non molto, purtroppo. Mi è stato detto che non c’era un padre e che mia madre non poteva tenermi, così sono stata abbandonata quando avevo solo pochi giorni. Poi, a otto mesi, sono stata adottata da una splendida famiglia napoletana. Salvo lunghi viaggi e permanenze all’estero ho sempre vissuto qui. E, sebbene sia cresciuta a Napoli, mia madre ha sempre tenuto a trasmettermi i tratti della cultura guatemalteca. Sin da bambina mi raccontava continuamente del mio paese e della mia gente”. Come mai hai deciso di intraprendere gli studi linguistici all’Università? “Lo studio delle lingue ha senza dubbio a che fare con la ricerca delle proprie radici. Ho iniziato a studiarle già alle superiori e credo che sia stato un passaggio fondamentale nella mia vita, con ripercussioni nel quotidiano. Mi ha aperto la mente e mi ha insegnato a comprendere, o se non altro ad accettare, tutte le diversità. L’ipotesi della ‘relatività  linguistica’ insegna che diverse culture non fanno che ritagliare ed etichettare i concetti in modo diverso. E in questo non esiste un modo in assoluto giusto o sbagliato”. Quante lingue conosci? Qual è quella in cui preferisci esprimerti? “Conosco cinque lingue, se vogliamo escludere il napoletano, ossia italiano, inglese, francese, spagnolo e olandese, in ordine di competenza. Sicuramente preferisco
esprimermi in italiano. Dopo aver trascorso anni a imparare lingue diverse, è sempre un sollievo poter parlare una lingua in cui si è in grado di spaziare tra registri linguistici più distanti, o poter fare giochi di parole con estrema spontaneità. Altrimenti sceglierei il francese, ne adoro i suoni e il modo di esprimere le idee”. In quale cultura, invece, ti riconosci maggiormente? “Mi sento alle spalle così tante culture, avendo anche vissuto per diverso tempo in una famiglia olandese e in altri contesti multietnici. Ritengo comunque che il multiculturalismo abbia come diretta conseguenza una maggiore flessibilità e curiosità nei confronti del nuovo, perché la partecipazione a diverse culture innesca automaticamente la capacità di vedere sempre cose e situazioni da  prospettive multiple. Pertanto, mi viene difficile sentire di appartenere a una cultura piuttosto che a un’altra. Spesso si può avere l’impressione di non ritrovarsi in nessuna. La verità è un’altra, per fortuna: nel momento in cui due culture entrano in contatto, se ne viene a creare una terza, l’intercultura, totalmente unica e propria di ciascun individuo”. Qual è l’insegnamento più profondo che hai ricavato da quest’incontro interculturale? “Quando si è vista la povertà estrema, non si riesce – o almeno io non potrei mai – a guardare più ciò che la vita mi offre con superficialità e leggerezza, senza apprezzare il benessere di cui disponiamo o la bellezza insita nelle piccole cose. Spesso mi sembrano del tutto estranei da me sia il concetto di proprietà o i fenomeni che la cultura materialista e/o consumista cerca di imporre. Ancora oggi vorrei confrontarmi su questi temi con altri ‘espatriati’, ne ho incontrati solo pochi finora”. Cosa ti affascina di più della terra cui appartieni? “Sicuramente, la cultura dei Maya, il profondo amore per la Terra-madre e una visione sacrale del cosmo, tutto ciò che rientra nel passato preispanico. Mi riferisco, per esempio, ai concetti di fecondità umana e fertilità della terra, elementi inseparabili dalla saggezza maya, in cui è radicata la consapevolezza di guardare alla Terra in quanto genitrice. La terra non ci appartiene, tuttalpiù siamo noi ad appartenerle. Null’altro che un rapporto filiale: siamo passeggeri su questo pianeta e il nostro compito più importante è quello di rispettarlo e nutrirlo, non certo quello di distruggerlo”. Viaggi molto? Puoi raccontare un’esperienza che ti ha segnato? “La mia passione più grande è la scoperta. Ogni viaggio ha riempito e conquistato il mio cuore. Sono molto curiosa e adoro scoprire nuove cose attraverso ricerche su internet o libri. Consiglio a tal proposito per
meglio comprendere la storia culturale di un popolo la lettura di ‘Mi chiamo Rigoberta Menchú’, biografia della pacifista guatemalteca, Premio Nobel per la pace nel 1992. Per il resto, è l’interazione con le persone a fare la differenza. Ho iniziato a viaggiare da sola quando avevo 16 anni e ho avuto la fortunadi visitare metà dell’Europa, al di fuori della quale sono stata solo negli Stati Uniti e in Turchia. Cerco di non rimanere mai per meno di un mese in un luogo e visitare, oltre alle capitali più famose, città e paesini minori. In genere, cerco un lavoro sul posto, ma quando ciò non è possibile viaggio in couchsurfing (un servizio on line di ospitalità gratuita). È un’esperienza che consiglio a chiunque voglia conoscere un luogo nella sua autenticità e farsi nuovi amici, ma soprattutto a chi abbia spirito di adattamento e condivisione. Quando va bene, è davvero come un’adozione temporanea e si instaurano rapporti molto forti”. Hai già lavorato nel campo della Mediazione Linguistica e Culturale? “Sì, anche se non si trattava di un lavoro effettivo, piuttosto di volontariato. L’ex OPG Occupato, a via Imbriani nel quartiere Materdei, si occupa da parecchi mesi di question ilegate all’immigrazione attraverso varie attività: sportello legale, ambulatorio medico e scuola di italiano per i migranti e in parallelo anche di monitoraggio e denuncia delle terribili condizioni in cui questi versano all’interno dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Un lavoro importante finalizzato al recupero di situazioni marginali e che si spera possa coinvolgere sempre più persone bisognose”. Alla luce di quest’esperienza, qual è la tua opinione in merito all’Emergenza rifugiati? “Come spesso accade in Italia, si chiama ‘emergenza’ ciò che di emergente non ha un bel niente. Credo che l’attuale sistema di accoglienza non sia altro che l’ennesimo tentativo ben riuscito di sfruttamento a scapito di chi purtroppo ne ha già passate tante. Queste sono, almeno a mio parere, le premesse di un quadro a tinte fosche, che dà l’impressione di spingere sempre di più verso un processo sistematico di ghettizzazione e chiamata all’odio. Occultare una realtà umana, che potenzialmente avrebbe tanto da apportare alla cultura quanto all’economia italiana, è un argomento da affrontare senza ipocrisie”. Hai in programma qualche altro progetto, dopo il trasferimento in Guatemala? “Il mio obiettivo è quello di apprendere e insegnare tecniche di permacoltura, agroforestazione ed ecocostruzione in America latina. Cos’è la permacoltura? Un metodo di coltivazione che, sulla scorta di strategie ecologiche innovative, consente di progettare insediamenti agricoli in parte rassomiglianti agli ecosistemi naturali. Questo permetterebbe ai cittadini di mantenersi autonomamente e rinnovare le risorse con un basso impiego di energia. Sogno da tanto tempo di dare un contributo alla mia gente, affinché la storia di cui sono protagonista abbia un significato e il mio percorso possa essere veramente utile per qualcuno”.
Sabrina Sabatino
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