Relatore alle Nazioni Unite per perorare la causa dei Saharawi. È l’esperienza che ha vissuto l’undici ottobre il prof. Fulvio Rino, docente di Rilievo presso il Dipartimento di Architettura della Federico II ed attivista da oltre dieci anni a difesa della causa di un popolo dimenticato e confinato in un immenso campo profughi in una porzione di deserto algerino inospitale.
“Sono stato a New York – racconta – come esponente della mia associazione, che si chiama ‘Bambini senza confini onlus’ (320 soci, tra i quali almeno 30 universitari), e su delega della rappresentanza in Italia dei Saharawi. All’Onu c’è una Commissione, la quarta, che si occupa specificamente delle problematiche non ancora risolte scaturite dai processi di decolonizzazione. Eravamo 112 petizionieri, provenienti da vari paesi. Solo due gli italiani”. Non è stato facile, racconta, vincere l’emozione, l’ansia e la preoccupazione. “Alla fine ce l’ho fatta – dice Rino – soprattutto in considerazione della volontà di non perdere l’opportunità di raccontare le difficoltà che tuttora vivono 500mila persone e di perorare una soluzione politica seria ad una vicenda che si trascina da troppo tempo”. Uno degli ostacoli da superare per il suo intervento all’Onu, confessa il docente di Architettura, è stato quello della lingua. “Prima che partissi per gli Stati Uniti – ricorda – avevo chiesto la possibilità di parlare in italiano. Ho studiato a lungo l’inglese, lo capisco, ma se devo esprimermi in pubblico in questa lingua mi blocco. Figuriamoci all’Onu. Avevo chiesto di parlare in italiano e di essere tradotto. Mi hanno risposto dalle Nazioni Unite che avrei dovuto utilizzare necessariamente una delle sei lingue ufficiali dell’Onu: inglese, francese, spagnolo, russo, cinese, arabo. Per un attimo ho pensato di rinunciare, poi mi sono fatto coraggio. Mi sono fatto tradurre in spagnolo qui in Italia l’intervento che avrei dovuto leggere a New York. Nelle settimane precedenti la partenza ho preso lezioni di spagnolo da uno studente madrelingua, a Napoli per l’Erasmus”.
“Sono stato a New York – racconta – come esponente della mia associazione, che si chiama ‘Bambini senza confini onlus’ (320 soci, tra i quali almeno 30 universitari), e su delega della rappresentanza in Italia dei Saharawi. All’Onu c’è una Commissione, la quarta, che si occupa specificamente delle problematiche non ancora risolte scaturite dai processi di decolonizzazione. Eravamo 112 petizionieri, provenienti da vari paesi. Solo due gli italiani”. Non è stato facile, racconta, vincere l’emozione, l’ansia e la preoccupazione. “Alla fine ce l’ho fatta – dice Rino – soprattutto in considerazione della volontà di non perdere l’opportunità di raccontare le difficoltà che tuttora vivono 500mila persone e di perorare una soluzione politica seria ad una vicenda che si trascina da troppo tempo”. Uno degli ostacoli da superare per il suo intervento all’Onu, confessa il docente di Architettura, è stato quello della lingua. “Prima che partissi per gli Stati Uniti – ricorda – avevo chiesto la possibilità di parlare in italiano. Ho studiato a lungo l’inglese, lo capisco, ma se devo esprimermi in pubblico in questa lingua mi blocco. Figuriamoci all’Onu. Avevo chiesto di parlare in italiano e di essere tradotto. Mi hanno risposto dalle Nazioni Unite che avrei dovuto utilizzare necessariamente una delle sei lingue ufficiali dell’Onu: inglese, francese, spagnolo, russo, cinese, arabo. Per un attimo ho pensato di rinunciare, poi mi sono fatto coraggio. Mi sono fatto tradurre in spagnolo qui in Italia l’intervento che avrei dovuto leggere a New York. Nelle settimane precedenti la partenza ho preso lezioni di spagnolo da uno studente madrelingua, a Napoli per l’Erasmus”.
Uno specializzando
ospite alla Federico II
ospite alla Federico II
È un legame, quello tra Rino ed i Saharawi, che nacque nel 2004. Ricorda: “Fino ad allora sapevo poco o nulla della questione. All’epoca uno dei miei figli frequentava la prima elementare in una scuola privata che era gestita da Rachele Furfaro, l’ex assessore. Io ero presidente del Consiglio d’istituto. Furfaro ci propose di organizzare durante l’estate un progetto di accoglienza per i bambini Saharawi. Non era un terreno inesplorato, perché in anni precedenti i bimbi erano stati già a luglio e ad agosto ospiti del Comune di Napoli in alcune scuole. Accettai la proposta, insieme ad altri genitori. Fu una esperienza indimenticabile ed ha lasciato il segno. Ad aprile 2005, dunque, più o meno lo stesso gruppo che aveva aderito alla proposta della scuola nell’estate precedente costituì la onlus. Da allora ogni estate continuiamo a far venire qui da noi i piccoli Saharawi ed i loro accompagnatori. Contiamo sul sostegno, che non è mai venuto meno sia all’epoca della giunta Iervolino, sia con l’attuale guidata da de Magistris, del Comune di Napoli. Ci ha dato una mano, mettendoci a disposizione una struttura ad agosto, pure il Comune di Bacoli. Attrezziamo le scuole con letti, cucine e quant’altro occorra. Diventano ostelli e punti di appoggio per i bambini che trascorrono alcune settimane con noi, incontrano i loro coetanei, esplorano mondi nuovi”.
I Saharawi, riferisce il docente di Architettura, “sono ammassati nel deserto di Hammada – una distesa pietrosa – in territorio algerino. Abitano in tende e case realizzate con sabbia ed acqua. Resistono in condizioni difficili, ciononostante si sforzano di garantire ai bimbi livelli di istruzione e dignità. C’è un tasso di alfabetizzazione del 96 o 97 per cento, grazie ad una organizzazione scolastica capillare. Dopo gli undici anni molti tra quelli che proseguono gli studi lo fanno grazie a progetti di aiuto e cooperazione internazionale. Per esempio, alla Federico II abbiamo ospitato un giovane medico, che si era laureato a Cuba ed era venuto a Napoli per specializzarsi in Gastroenterologia”.
La terra di origine dei Saharawi è il Sahara occidentale, ma le vicende storiche degli ultimi decenni hanno fatto sì che quasi la totalità della popolazione sia andata via o sia stata allontanata a forza. Ricostruisce Rino: “Il loro territorio è stato per oltre un secolo una colonia spagnola, era conosciuto come Sahara spagnolo. Nel 1974, al culmine dei processi di decolonizzazione fu invaso dal Marocco, presumibilmente con l’accondiscendenza di Francisco Franco, il dittatore spagnolo all’epoca al potere. Fu una strage, furono impiegati carri armati e napalm. La stragrande maggioranza dei civili scappò e si rifugiò nella porzione di deserto algerino dove tuttora vivono. Altri tentarono una resistenza armata. C’era ancora la guerra fredda e la divisione in blocchi. Il Marocco era appoggiato dagli Stati Uniti. Il Fronte Polisario aveva finanziamenti da Cuba e, tramite essa, dall’Unione Sovietica. Il conflitto si è trascinato per molti anni”.
Dal 1991, con la mediazione dell’Onu, vige un cessate il fuoco. Nello stesso anno l’Onu stabilì che si sarebbe dovuto svolgere un referendum per l’autodeterminazione del Sahara occidentale. “Non si è mai effettuato – ricorda però Rino – perché il Marocco non ha mai voluto si svolgesse. Gli interessi in gioco sono troppo importanti. Il territorio dei Saharawi è ricco di fosfati, che si esportano soprattutto in Australia, e la costa è pescosissima. C’è di buono, però, che la tregua finora ha retto e che i Saharawi, abbandonata la resistenza armata, hanno iniziato a combattere con altre armi. L’Avvocatura di Stato dei Saharawi, per esempio, ha avviato iniziative legali contro l’accordo commerciale sulla pesca tra l’Unione europea ed il Marocco, e la Corte Europea ha riconosciuto illegittimo questo accordo. È importante anche che i Saharawi si siano organizzati in una Repubblica democratica araba”. Hanno un Presidente della Repubblica eletto, ministri ed hanno tentato di farsi riconoscere dal punto di vista politico. Però “sono uno Stato senza territorio. Hanno una rappresentanza all’Onu, ma non sono uno Stato membro perché non sono riconosciuti da tutta la comunità internazionale. Per questo è fondamentale l’opera di sensibilizzazione alla quale anche io ho contribuito intervenendo alla quarta Commissione. C’è bisogno che dei Saharawi si parli quanto più è possibile. Anche di quelli che sono rimasti nei territori occupati dal Marocco e, se manifestano per la propria causa, sono repressi brutalmente. Vanno in carcere e ci sono stati casi di torture e sparizioni. Aminattou Ali Ahmed Haidar è uno dei simboli di chi ha subito queste vessazioni. Desaparecida per tre anni, incarcerata, torturata, fu rilasciata dopo uno sciopero della fame e pressioni internazionali. Una decina di anni fa il sindaco Iervolino le conferì la cittadinanza onoraria di Napoli”.
Due settimane dopo che è tornato dall’Onu, il prof. Rino è intervenuto in apertura del Consiglio di Dipartimento di Architettura, a Palazzo Gravina, con un discorso dedicato alla questione dei Saharawi ed alle loro vicissitudini. “La sollecitazione – racconta – è partita dal Direttore, il prof. Mario Losasso. Ho aderito con enorme piacere, anche perché nell’associazione che presiedo opera un bel numero di universitari: docenti, amministrativi e studenti”.
Fabrizio Geremicca
I Saharawi, riferisce il docente di Architettura, “sono ammassati nel deserto di Hammada – una distesa pietrosa – in territorio algerino. Abitano in tende e case realizzate con sabbia ed acqua. Resistono in condizioni difficili, ciononostante si sforzano di garantire ai bimbi livelli di istruzione e dignità. C’è un tasso di alfabetizzazione del 96 o 97 per cento, grazie ad una organizzazione scolastica capillare. Dopo gli undici anni molti tra quelli che proseguono gli studi lo fanno grazie a progetti di aiuto e cooperazione internazionale. Per esempio, alla Federico II abbiamo ospitato un giovane medico, che si era laureato a Cuba ed era venuto a Napoli per specializzarsi in Gastroenterologia”.
La terra di origine dei Saharawi è il Sahara occidentale, ma le vicende storiche degli ultimi decenni hanno fatto sì che quasi la totalità della popolazione sia andata via o sia stata allontanata a forza. Ricostruisce Rino: “Il loro territorio è stato per oltre un secolo una colonia spagnola, era conosciuto come Sahara spagnolo. Nel 1974, al culmine dei processi di decolonizzazione fu invaso dal Marocco, presumibilmente con l’accondiscendenza di Francisco Franco, il dittatore spagnolo all’epoca al potere. Fu una strage, furono impiegati carri armati e napalm. La stragrande maggioranza dei civili scappò e si rifugiò nella porzione di deserto algerino dove tuttora vivono. Altri tentarono una resistenza armata. C’era ancora la guerra fredda e la divisione in blocchi. Il Marocco era appoggiato dagli Stati Uniti. Il Fronte Polisario aveva finanziamenti da Cuba e, tramite essa, dall’Unione Sovietica. Il conflitto si è trascinato per molti anni”.
Dal 1991, con la mediazione dell’Onu, vige un cessate il fuoco. Nello stesso anno l’Onu stabilì che si sarebbe dovuto svolgere un referendum per l’autodeterminazione del Sahara occidentale. “Non si è mai effettuato – ricorda però Rino – perché il Marocco non ha mai voluto si svolgesse. Gli interessi in gioco sono troppo importanti. Il territorio dei Saharawi è ricco di fosfati, che si esportano soprattutto in Australia, e la costa è pescosissima. C’è di buono, però, che la tregua finora ha retto e che i Saharawi, abbandonata la resistenza armata, hanno iniziato a combattere con altre armi. L’Avvocatura di Stato dei Saharawi, per esempio, ha avviato iniziative legali contro l’accordo commerciale sulla pesca tra l’Unione europea ed il Marocco, e la Corte Europea ha riconosciuto illegittimo questo accordo. È importante anche che i Saharawi si siano organizzati in una Repubblica democratica araba”. Hanno un Presidente della Repubblica eletto, ministri ed hanno tentato di farsi riconoscere dal punto di vista politico. Però “sono uno Stato senza territorio. Hanno una rappresentanza all’Onu, ma non sono uno Stato membro perché non sono riconosciuti da tutta la comunità internazionale. Per questo è fondamentale l’opera di sensibilizzazione alla quale anche io ho contribuito intervenendo alla quarta Commissione. C’è bisogno che dei Saharawi si parli quanto più è possibile. Anche di quelli che sono rimasti nei territori occupati dal Marocco e, se manifestano per la propria causa, sono repressi brutalmente. Vanno in carcere e ci sono stati casi di torture e sparizioni. Aminattou Ali Ahmed Haidar è uno dei simboli di chi ha subito queste vessazioni. Desaparecida per tre anni, incarcerata, torturata, fu rilasciata dopo uno sciopero della fame e pressioni internazionali. Una decina di anni fa il sindaco Iervolino le conferì la cittadinanza onoraria di Napoli”.
Due settimane dopo che è tornato dall’Onu, il prof. Rino è intervenuto in apertura del Consiglio di Dipartimento di Architettura, a Palazzo Gravina, con un discorso dedicato alla questione dei Saharawi ed alle loro vicissitudini. “La sollecitazione – racconta – è partita dal Direttore, il prof. Mario Losasso. Ho aderito con enorme piacere, anche perché nell’associazione che presiedo opera un bel numero di universitari: docenti, amministrativi e studenti”.
Fabrizio Geremicca







