“Andate a fondo nelle questioni che affrontate e non fatevi influenzare dalla ‘chiacchierologia’ se volete diventare dei criminologi. Si tratta di una professione da non sottovalutare, in quanto può essere molto utile per cercare di risolvere un caso al fianco degli investigatori”. E’ il consiglio che Franca Leosini, volto noto del piccolo schermo grazie a programmi di successo come ‘Storie maledette’ e ‘Ombre sul giallo’, ha dato agli studenti dell’Università Suor Orsola Benincasa. L’occasione per discutere di come si raccontano storie di delitti, nella maggior parte dei casi quelli più efferati, è stata la lectio magistralis che la giornalista ha tenuto il 26 maggio scorso nell’Aula Magna di corso Vittorio Emanuele, alla presenza del prof. Lucio D’Alessandro, Preside della Facoltà di Scienze della Formazione.
La Leosini è anche autrice delle trasmissioni che conduce su Raitre. ‘Storie maledette’, che a settembre ripartirà con l’undicesima edizione, è senza dubbio uno dei format che riscuotono grande consenso tra il pubblico televisivo. Ma da cosa nasce l’interesse degli spettatori verso storie cruente e soprattutto come si costruisce un programma che si pone come obiettivo quello di analizzare persone in grado di commettere azioni così spaventose? Prima di iniziare la relazione, è stata proiettata una serie di spezzoni riguardanti alcune delle storie più famose trattate dalla Leosini. Il caso di Patrizia Gucci, emblema di ciò che può spingere una donna della società benestante ad uccidere il marito; o quello di Mary Patrizio, la madre assassina del figlioletto di cinque mesi. “Il delitto non è mai un caso isolato – spiega la giornalista – ma trasversale al piano della società, in quanto sintomo di una serie di disagi presenti in essa. L’esperienza nel settore mi ha portato a credere che attraverso il crimine si può dare una doppia lettura del paese in cui viviamo: sociale e geografica. Le persone che uccidono non sono dei professionisti del crimine; si tratta di gente normale a cui capita di commettere un omicidio. E’ soprattutto questa la ragione per cui il mio ruolo non è quello di giudicare l’atto in sé, ma di andare oltre i fatti”. E per fare questo occorre documentarsi, partire dal dato ufficiale per cercare di capire quali siano state le dinamiche che hanno portato all’omicidio. La Leosini ha sottolineato la differenza tra i crimini commessi al nord rispetto al sud, sfatando il mito di un Mezzogiorno passionale in cui si uccide molto di più che in altri posti: i delitti privati, anzi, avvengono soprattutto nel Settentrione e la ragione va ricercata principalmente in una sorta di differente scala di valori secondo cui delitti come quello di Erba, per citare un esempio tristemente noto, al sud, e in particolare a Napoli, potrebbe difficilmente verificarsi. “Nella città in cui anche io sono nata – ha detto la giornalista – esiste la cosiddetta ‘vicoleria’: tutto ciò che succede è condiviso dal quartiere intero, nel bene e nel male, dunque è impensabile uccidere perché c’è una famiglia che dà fastidio alle altre. Lo stesso dicasi per il caso dell’uomo che violentò e uccise la cugina di molti anni più piccola: in un piccolo centro come San Severo di Foggia vige ancora la mentalità secondo la quale se si ‘compromette’ una ragazza poi la si può sposare; dunque chi ha commesso il delitto non lo ha fatto tanto per gioco. Tuttavia, se non si considerano tutti gli elementi a disposizione, non è possibile raccontare e io scelgo sempre se e di quali storie parlare”.
La Leosini non ama definire il suo programma come un’intervista, ma piuttosto come una struttura narrativa all’interno della quale si possono ritrovare diversi elementi. Tutte le persone che ha incontrato non erano mai state intervistate prima e il momento dell’intervista non è stato che la parte conclusiva di un’indagine svolta su più fronti: prima di tutto la lettura degli atti dei processi (in alcune occasioni anche settemila pagine) e poi gli incontri con gli psicologi delle carceri, nonché la lettura dei quotidiani locali. Il tutto per cercare di avere quanto più materiale possibile per riuscire in un compito arduo e delicato: quello di calarsi, ma soprattutto di far calare l’interlocutore nuovamente nell’inferno personale vissuto in passato.
“Ci vuole professionalità e impegno, ma soprattutto rispetto per chi si ha di fronte. A prescindere da quello che sia il reato commesso, nel mio approccio non c’è giudizio, né tantomeno pregiudizio”, risponde la Leosini ad Antonio, allievo del Master in Giornalismo – c’erano anche molti iscritti al Master in Scienze Criminologiche e studenti in particolare di Scienze della Comunicazione e Scienze dell’Educazione per i quali al terzo anno è possibile scegliere l’indirizzo in Criminologia -, che le ha chiesto come sia possibile portare la gente a parlare in maniera così schietta. “E’ un peccato che incontri così interessanti si tengano in periodi d’esame come questo”, ha commentato Fabiana Spena, studentessa al primo anno. Dello stesso parere le sue colleghe Teresa Memoli, Federica Nobile e Talyè Dirmilli; vengono tutte dall’hinterland e seguono i corsi ogni giorno. “Il motivo per il quale molti dei nostri colleghi non si sono mossi è proprio questo – hanno detto – I corsi terminano il 31 maggio e abbiamo sì e no una settimana di tempo per studiare, prima che inizino gli esami. Questi ultimi, tra l’altro, spesso si accavallano e diventa ancora più difficile dedicarsi ad altre attività”. Le ragazze non hanno ancora un’idea precisa di ciò che vogliono fare da grandi, ma si dicono intenzionate ad intraprendere la strada della criminologia. “Centri di accoglienza, strutture che ospitano giovani disagiati e li aiutano a reinserirsi nella società: viviamo in una città in cui storie di criminalità sono all’ordine del giorno e speriamo di potere un giorno contribuire a migliorare la difficile realtà che osserviamo da vicino, attraverso le competenze acquisite durante il nostro percorso di studi”.
Anna Maria Possidente
La Leosini è anche autrice delle trasmissioni che conduce su Raitre. ‘Storie maledette’, che a settembre ripartirà con l’undicesima edizione, è senza dubbio uno dei format che riscuotono grande consenso tra il pubblico televisivo. Ma da cosa nasce l’interesse degli spettatori verso storie cruente e soprattutto come si costruisce un programma che si pone come obiettivo quello di analizzare persone in grado di commettere azioni così spaventose? Prima di iniziare la relazione, è stata proiettata una serie di spezzoni riguardanti alcune delle storie più famose trattate dalla Leosini. Il caso di Patrizia Gucci, emblema di ciò che può spingere una donna della società benestante ad uccidere il marito; o quello di Mary Patrizio, la madre assassina del figlioletto di cinque mesi. “Il delitto non è mai un caso isolato – spiega la giornalista – ma trasversale al piano della società, in quanto sintomo di una serie di disagi presenti in essa. L’esperienza nel settore mi ha portato a credere che attraverso il crimine si può dare una doppia lettura del paese in cui viviamo: sociale e geografica. Le persone che uccidono non sono dei professionisti del crimine; si tratta di gente normale a cui capita di commettere un omicidio. E’ soprattutto questa la ragione per cui il mio ruolo non è quello di giudicare l’atto in sé, ma di andare oltre i fatti”. E per fare questo occorre documentarsi, partire dal dato ufficiale per cercare di capire quali siano state le dinamiche che hanno portato all’omicidio. La Leosini ha sottolineato la differenza tra i crimini commessi al nord rispetto al sud, sfatando il mito di un Mezzogiorno passionale in cui si uccide molto di più che in altri posti: i delitti privati, anzi, avvengono soprattutto nel Settentrione e la ragione va ricercata principalmente in una sorta di differente scala di valori secondo cui delitti come quello di Erba, per citare un esempio tristemente noto, al sud, e in particolare a Napoli, potrebbe difficilmente verificarsi. “Nella città in cui anche io sono nata – ha detto la giornalista – esiste la cosiddetta ‘vicoleria’: tutto ciò che succede è condiviso dal quartiere intero, nel bene e nel male, dunque è impensabile uccidere perché c’è una famiglia che dà fastidio alle altre. Lo stesso dicasi per il caso dell’uomo che violentò e uccise la cugina di molti anni più piccola: in un piccolo centro come San Severo di Foggia vige ancora la mentalità secondo la quale se si ‘compromette’ una ragazza poi la si può sposare; dunque chi ha commesso il delitto non lo ha fatto tanto per gioco. Tuttavia, se non si considerano tutti gli elementi a disposizione, non è possibile raccontare e io scelgo sempre se e di quali storie parlare”.
La Leosini non ama definire il suo programma come un’intervista, ma piuttosto come una struttura narrativa all’interno della quale si possono ritrovare diversi elementi. Tutte le persone che ha incontrato non erano mai state intervistate prima e il momento dell’intervista non è stato che la parte conclusiva di un’indagine svolta su più fronti: prima di tutto la lettura degli atti dei processi (in alcune occasioni anche settemila pagine) e poi gli incontri con gli psicologi delle carceri, nonché la lettura dei quotidiani locali. Il tutto per cercare di avere quanto più materiale possibile per riuscire in un compito arduo e delicato: quello di calarsi, ma soprattutto di far calare l’interlocutore nuovamente nell’inferno personale vissuto in passato.
“Ci vuole professionalità e impegno, ma soprattutto rispetto per chi si ha di fronte. A prescindere da quello che sia il reato commesso, nel mio approccio non c’è giudizio, né tantomeno pregiudizio”, risponde la Leosini ad Antonio, allievo del Master in Giornalismo – c’erano anche molti iscritti al Master in Scienze Criminologiche e studenti in particolare di Scienze della Comunicazione e Scienze dell’Educazione per i quali al terzo anno è possibile scegliere l’indirizzo in Criminologia -, che le ha chiesto come sia possibile portare la gente a parlare in maniera così schietta. “E’ un peccato che incontri così interessanti si tengano in periodi d’esame come questo”, ha commentato Fabiana Spena, studentessa al primo anno. Dello stesso parere le sue colleghe Teresa Memoli, Federica Nobile e Talyè Dirmilli; vengono tutte dall’hinterland e seguono i corsi ogni giorno. “Il motivo per il quale molti dei nostri colleghi non si sono mossi è proprio questo – hanno detto – I corsi terminano il 31 maggio e abbiamo sì e no una settimana di tempo per studiare, prima che inizino gli esami. Questi ultimi, tra l’altro, spesso si accavallano e diventa ancora più difficile dedicarsi ad altre attività”. Le ragazze non hanno ancora un’idea precisa di ciò che vogliono fare da grandi, ma si dicono intenzionate ad intraprendere la strada della criminologia. “Centri di accoglienza, strutture che ospitano giovani disagiati e li aiutano a reinserirsi nella società: viviamo in una città in cui storie di criminalità sono all’ordine del giorno e speriamo di potere un giorno contribuire a migliorare la difficile realtà che osserviamo da vicino, attraverso le competenze acquisite durante il nostro percorso di studi”.
Anna Maria Possidente