Mentire per farsi scoprire

Il pomeriggio del 4 giugno una studentessa denuncia di aver subito un tentativo di violenza in una stradina del centro storico. In poche ore si scopre che si era inventata tutto perché non riusciva a sopportare la tensione del ritardo negli studi. Con eguale rapidità, sui social network, si è passati dalla denuncia dell’insicurezza della nostra città all’attacco contro la studentessa, rea di essere bugiarda e di aver scatenato una caccia all’innocente, il presunto stupratore. 
Nella piena delle reazioni emotive non ci siamo, forse, dati l’opportunità di sforzarci di capire. C’è una diffidenza diffusa, quando accadono casi così clamorosi, verso l’etica del ‘capire’. Tolstoj ha scritto che tout comprendre c’est tout pardonner, e a molti l’atteggiamento ‘comprensivo’ sembra un via libera alla de-responsabilizzazione dei soggetti, che invece andrebbero ‘inchiodati’ ai loro gesti. Ma non si vuole negare l’esigenza che le persone si assumano le responsabilità dei propri atti, quello che cerchiamo di fare, richiamandoci al dovere di ‘capire’, è interrogarci sulla nostra di responsabilità. In un’accezione particolare: siamo in grado di rispondere a quello che la studentessa ci sta dicendo col suo atto?
Voglio cominciare con una confessione di ‘impotenza’: nonostante trent’anni di counselling con gli studenti universitari non posso fornire risposte definitive, sanzionate dalla competenza professionale esperta. La mente è qualcosa di estremamente complesso e non potremo mai avere un pacchetto di spiegazioni da dispensare. Il che non vuol dire che non possiamo dire niente. Per cominciare, possiamo segnalare un punto: per arginare l’ansia rispetto a un fallimento universitario si è simulato uno stupro, la violenza più terribile, quella che attenta alla dimensione più propria. Non posso fare a meno di chiedermi se quello che la studentessa ha cercato di dirci è, anzitutto, che per lei l’esperienza universitaria era diventata una violenza quotidiana al proprio senso di sé, a quell’intimità per cui siamo in relazione privilegiata con noi stessi.
Il percorso universitario è qualcosa che ti entra dentro: pensiamo a quanti, avendo abbandonato gli studi e pur avendo conseguito importanti successi professionali, a distanza di tempo avvertono un senso di fallimento. Negli ultimi tempi, poi, completare un percorso serio di studi universitari è diventato quasi un atto “eroico”, in una realtà nella quale si fa fatica a trovare una propria dimensione personale, sociale e lavorativa. 
Che succede quando uno studente è anche “fragile” e approda all’Università in una condizione di per sé già precaria per le vicissitudini dolorose della propria storia personale o per tratti caratteriali che non sono in sintonia con il progetto di studiare? Molte volte si sono rivolti al nostro servizio di Consultazione Psicologica per Studenti Universitari (CPSU) giovani “fragili” che hanno chiesto aiuto, comunicando la sensazione di “essere all’ultima spiaggia”, e hanno provato a condividere la propria sofferenza. Altre volte, però, lo studente cerca “da solo” soluzioni più “facili” per gestire il proprio disagio, perché, forse, non riesce a tollerare il dolore.  
In molti casi, tra le soluzioni illusorie che lo studente trova c’è proprio la menzogna. Perché lo studente mente? Spesso lo studente, senza saperlo, mente per essere scoperto o per denunciare una verità personale più profonda. A volte la vera bugia per lo studente non è quella che racconta ai genitori, ma quella connessa al tentativo di percorrere una strada che non lo rispecchia del tutto. Non sempre si ha il coraggio di ‘guardare negli occhi’ desideri e paure connesse alle proprie scelte di vita, e perciò si va avanti senza provare a rivedere il proprio progetto per la paura di deludere se stessi o gli altri (genitori, amici, parenti) e di riconoscere fallimenti che probabilmente verrebbero vissuti in maniera catastrofica. 
Tuttavia andare avanti senza riconoscersi nelle proprie scelte, col tempo, può indurre sentimenti di oppressione, estraneità, depressione. Sono queste le condizioni che rischiano di degenerare in atti inconsulti, meditati in silenzio o agiti d’impulso, che spesso sono il risultato di una sofferenza denunciata, a volte, “tra le righe”. 
Che fare allora? Anzitutto non temere di riconoscere la propria debolezza (per questo ho voluto cominciare con una mia ammissione di impotenza). Per farlo, però, potremmo aver bisogno di un aiuto. Per questo è importante che negli Atenei – forse addirittura all’interno dei singoli Dipartimenti – vi sia uno spazio di ascolto stabile per accogliere le richieste d’aiuto degli studenti. 
Ma spesso uno studente non vuole riconoscere il proprio malessere e non vuole essere aiutato. È allora importante l’attenzione dei genitori, dei docenti più sensibili, e degli amici predisposti all’ascolto, che possono accorgersi del suo disagio. Molte volte, infatti, sono proprio i colleghi ad avere un maggiore ascendente sui compagni e possono suggerire loro interventi mirati. È fondamentale mostrarsi disponibili, ascoltare senza allarmarsi, suggerire di chiedere aiuto, rivolgendosi a un esperto. Non serve condannare comportamenti autodistruttivi e deplorevoli, quanto piuttosto avere fiducia e provare a sostenere le parti più sane e vitali, quelle che ancora cercano di costruire un progetto realistico, provando a ridimensionare la paura di fallire. Nella consapevolezza che dentro di noi abbiamo la forza per crearci una vita piena. E che questa forza è spesso solo l’altro nome di quella debolezza che sperimentiamo e che dobbiamo imparare ad accogliere. 
A cura del prof. Paolo Valerio
Prof. Ordinario di Psicologia Clinica
Direttore del Centro dell’Ateneo Federico II SInAPSi 
(Servizi per l’Inclusione Attiva e Partecipata degli Studenti)
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