Sono in Italia grazie al progetto Unicore 4.0 che permette ogni anno ad alcuni studenti con lo status di rifugiati di accedere a un Corso di studio nel nostro Paese
Tre quarti della popolazione mondiale vive in un clima di incertezza dal punto di vista socio-economico, politico e giuridico. È un fatto. Così come lo è la sua distribuzione quasi esclusiva nelle aree del sud del mondo. Tra le zone più colpite vi è da sempre il continente africano, terra insanguinata da conflitti e lotte intestine, martoriato da persecuzioni etniche, religiose e politiche. Delicatissima è, in questo senso, la condizione dei rifugiati. Persone costrette ad abbandonare la propria terra d’origine, i propri sogni e le proprie speranze; persone il cui status giuridico non consente nella maggioranza dei casi una vita normale. Nel 2019 l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha promosso il progetto Unicore 4.0, che da allora permette ogni anno ad alcuni studenti con lo status di rifugiati di accedere a un Corso di studio in Italia. Anche la Vanvitelli ha aderito al progetto, ospitando alcuni studenti. Sono arrivati lo scorso 16 novembre Dugje Kitha, di nazionalità nigeriana ma rifugiato in Camerun, e Bita Bicundo, congolese rifugiato in Mozambico. Le loro storie feriscono la nostra sensibilità di occidentali, perché per noi la libertà è (vale il caso di dirlo) un’abitudine. Solo attraverso la testimonianza di chi ha rischiato di perderla, insieme alla vita, possiamo comprendere, anche se solo parzialmente, quale sia l’entità del dramma che migliaia di persone sono costrette a vivere ogni giorno.
“I problemi del mio paese natale sono molti”, ha detto Dugje, che è iscritto al primo anno del Corso di Laurea Magistrale internazionale in International Relations and Organisations. “Partiamo dal presupposto che quello che per voi è il normale esercizio della democrazia, per noi è un miraggio. Il processo democratico, in Nigeria, si trova costantemente di fronte a ostacoli insormontabili, e la corruzione è a livelli inimmaginabili”. Ma non è soltanto l’instabilità politica a rendere la vita delle persone estremamente difficile. “So che anche voi siete a conoscenza dell’organizzazione terroristica di matrice islamica Boko Haram, la quale rende la vita impossibile ai cristiani e vieta, laddove riesce a radicarsi, modelli educativi occidentali. Ma non sono soltanto questi i problemi della Nigeria: il tribalismo, lo sfruttamento da parte delle compagnie energetiche e l’inflazione contribuiscono a generare una situazione di incertezza che, unitamente al timore di subire violenze, produce ogni anno l’esodo di centinaia di persone”. Nel 2014 Dugje si era iscritto presso l’Università nigeriana di Ahmadu Bello, l’ha dovuta però lasciare poco dopo a causa delle precarie condizioni economiche della sua famiglia che, complice anche la situazione incerta dal punto di vista della sicurezza, decide di spostarsi in Camerun.
“Voglio diventare un diplomatico”
Nel campo rifugiati camerunense di Minawao Dugje, nel 2016, incontra il resto della famiglia, che aveva già lasciato la Nigeria. Partecipa al concorso, promosso dall’UNHCR, per la Albert Einstein German Academic Refugee Initiative (DAFI), un’iniziativa che concede agli studenti vincitori la possibilità di iscriversi all’università con forti agevolazioni, e vince. Si iscrive così presso la locale Università di Scienze Economiche e Tecnologiche e nel 2019 ottiene finalmente la laurea. Dal 2019 al 2022 lavora come insegnante presso la Scuola elementare bilingue governativa di Minawao, con lo scopo specifico di istruire e guidare i bambini che si trovano in situazioni di emergenza umanitaria. “Ho deciso di studiare in Italia per diversi motivi – ha detto – In primo luogo il livello di istruzione in questo Paese è molto elevato. Secondariamente si tratta di una nazione che vanta una cultura ricca e varia, che almeno una volta nella vita andrebbe toccata con mano. In ultimo, è un posto sicuro, dove non si deve aver paura di muoversi liberamente per le strade”. I progetti per il futuro sono fortemente influenzati dal suo vissuto: “Voglio diventare un diplomatico e aiutare a costruire ponti tra le nazioni; vorrei riuscire, insomma, a facilitare il dialogo e a contribuire al mantenimento della pace”.
“Sono nato nella Repubblica Democratica del Congo, nella provincia del Sud Kivu – ha raccontato Bita – ma ho lasciato il Paese subito perché, proprio nel giorno della mia nascita, nel 1996, è scoppiata la guerra. Il mio nome, infatti, in lingua kibembe, significa ‘guerra’”. Il primo trasferimento della famiglia in Tanzania, nel campo rifugiati di Nyarugusu, poi di nuovo l’incertezza, dacché nel campo c’era il rischio di nuove violenze. La famiglia di Bita si sposta in Mozambico ed è accolta dalla chiesa cattolica di Nampula. Solo nel 2001 è istituito il campo rifugiati di Maratane, dove Bita e i suoi familiari si stabiliscono. Il suo percorso verso la laurea non è stato semplice, proprio a causa della sua condizione di rifugiato. Grazie al sostegno di alcune organizzazioni e dell’UNHCR, tuttavia, ha potuto realizzare il suo obiettivo, laureandosi in Insegnamento della Lingua francese presso la Rovuma University di Nampula. “Nel maggio del 2022 ho saputo del progetto Unicore 4.0 e ho deciso di partecipare – ha detto – Non ero sicuro, perché si trattava di un progetto molto competitivo, che coinvolgeva molte nazioni, e in più non avevo i mezzi per inoltrare la mia domanda. Così ho avvertito i miei genitori che sarei andato a Nampula per usare il computer della mia vecchia Università. Navigando mi sono imbattuto nel Corso di Laurea in International Relations and Organistaions della Vanvitelli e ho deciso che sarebbe stato quello che avrei frequentato, se mai avessi vinto il concorso. Alla fine ce l’ho fatta”. Dunque Bita lo comunica al padre: “Gli ho detto che sarei andato in Italia, cosa che aveva sempre desiderato in quanto per lui questo paese rappresenta l’apice del patrimonio culturale mondiale. Gli ho detto che mi sarei iscritto a questo Corso di Laurea. Lui è rimasto perplesso. Mi ha detto: ‘Si tratta di una branca delle Scienze politiche, e tu sei un rifugiato. Come possono le due cose essere compatibili?’. Allora io gli ho risposto che non lo sarò per sempre. A quel punto lui mi ha dato la sua benedizione”.
“Essere rifugiati ci priva di molte opportunità”
Il sogno di Bita è quello di “contrastare l’ingiustizia sociale promuovendo giustizia, uguaglianza, pari opportunità e cercando soluzioni durature ai problemi transitori e cronici della nostra attualità, come la globalizzazione, il terrorismo, la guerra e i disastri naturali che vilipendono l’Africa e molte altre parti del mondo”. Purtroppo lo status giuridico dei rifugiati spesso non consente una vita normale. La riflessione è dello stesso Bita: “Ho pensato molto, in tutti questi anni, alla mia condizione. Ho concluso che essere rifugiati ci priva di molte opportunità, perché ci sono cose che non siamo in diritto di fare. Occorrerà che sia più chiaro. Quando studiavo all’Università di Nampula mi fermò la polizia e mi chiese di identificarmi. Spiegai che ero congolese ma loro, guardando la mia carta d’identità di rifugiato, mi dissero: ‘Tu non sei congolese. Sei un rifugiato. E il posto per te e per quelli come te è il campo per rifugiati. Quella è la tua patria’. In altre parole, per loro non avevo una reale identità, ero un semplice rifugiato di cui non si conosceva l’esatta collocazione, una persona che semplicemente non poteva avere gli stessi diritti e le stesse opportunità di tutte le altre. Ma io credo fortemente che un giorno riuscirò a conquistare la mia identità e finalmente diventerò un vero congolese”.
Nicola Di Nardo