“Non esiste una quantità di alcool esente da rischio”

Dibattito sulla etichettatura del vino. Intervengono i professori Filomena Morisco e Alberto Ritieni

L’alcool è una sostanza tossica secondo la definizione che ne dà l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale la considera anche il nostro Ministero della Sanità. Non esiste una quantità di alcool esente da rischio e questo è bene sottolinearlo sempre. Dal punto di vista concettuale, dunque, l’etichettatura delle bottiglie di vino con avvisi relativi ai danni provocati alla salute ha un senso. Parole della prof.ssa Filomena Morisco, gastroenterologo ed epatologo alla Federico II (Dipartimento di Medicina clinica e Chirurgia). La docente interviene nel dibattito sull’opportunità di apporre avvertenze sui rischi per la salute – analoghe a quelle che da tempo sono stampate sui pacchetti di sigarette – sulle bottiglie di bevande alcoliche, vino compreso. Sul numero precedente di Ateneapoli alcuni docenti del Corso di Laurea in Viticoltura ed Enologia del Dipartimento di Agraria federiciano avevano sostenuto che l’etichettatura per il vino non era opportuna. Morisco ha una tesi almeno in parte differente. “È vero – argomenta – che la proposta viene da un Paese come l’Irlanda, dove è molto diffuso l’uso smodato dell’alcool ed hanno molti morti per incidenti, cirrosi ed altro, ma in Italia la situazione non è poi così rosea. L’uso dell’alcool è molto diffuso anche nella popolazione italiana, sebbene la maggior parte beva entro le due unità alcoliche per i maschi e la singola unità alcolica per le donne, in una soglia a basso rischio. Quest’ultimo comunque esiste, anche per dosi basse, ma lo si accetta per i benefici che derivano alla convivialità ed all’economia”.

“Meno bevi, meglio stai”

Sì all’etichettatura, dunque, ma in una versione più ‘morbida’ rispetto a quella che propone l’Irlanda. “Magari – dice la prof.ssa Morisco – andrebbe bene il messaggio che invita a bere il meno possibile. Una frase tipo: Meno bevi, meglio stai o qualcosa di simile. Sarebbe preferibile rispetto ad avvisi come quelli relativi al rischio di cancro o ai danni per la salute”. Aggiunge: “Se poi come medico devo parlare di pazienti, specie epatopatici, allora per essi l’uso dell’alcool deve essere zero. Non devono bere i minorenni, le donne in gravidanza e, a ridosso dell’orario di servizio, chi abbia responsabilità di lavori di attenzione come chirurghi, piloti ed altri. In questi casi la formula del basso rischio non ha senso. Esiste il rischio zero e coincide con l’evitare completamente di assumere bevande alcoliche”. Interviene nella discussione anche il prof. Alberto Ritieni, che a Farmacia insegna Chimica degli Alimenti: “Non sono favorevole alle etichette ma non si può dire ‘no’ solo per difendere una filiera. Vanno adottate misure per sensibilizzare in particolare i più giovani sui rischi connessi all’uso ed all’abuso di bevande alcoliche, vino compreso. I dati riportati dal ‘Global status report on alcohol and health’ 2018 dell’OMS del settembre 2018, raccontano che l’uso di alcol nel 2016 ha causato nel mondo circa 3 milioni di morti, pari al 5,3% di tutti i decessi e si perdono il 5,1% degli anni di vita per malattia, disabilità o morte prematura attribuibili all’alcool, specie per gli uomini rispetto alle donne. L’alcool non è un nutriente, non è necessario consumarlo e crea danni sia a livello cellulare che multiorgano. Inoltre, l’alcool oltre ad essere tossico, potenzialmente cancerogeno, induce anche dipendenza da parte di chi ne abusa”. L’idea del docente è di avviare campagne informative rivolte alle ragazze ed ai ragazzi e condotte dai cosiddetti influencer. “Potrebbero avere un ruolo di sensibilizzazione e di persuasione”, ipotizza, “certamente maggiore rispetto alle etichettature con le avvertenze che gli alcolici provocano danni alla salute o possono favorire il cancro. I giovani si sentono immortali. Messaggi come questi hanno una  presa relativa. Se, però, nelle giuste modalità proviamo a sensibilizzare i più giovani con testimonial che hanno presa sulle ragazze ed i ragazzi, che utilizzano il giusto linguaggio, magari si ottengono risultati”. Prosegue: “Educare a un consumo di vino in un pasto equilibrato, senza dare ad esso proprietà salutistiche che non può sostenere, è una possibile strada perché ci sia un naturale autocontrollo. Non sono contrattabili i divieti di cessione a qualunque titolo di bevande alcoliche di qualsiasi tipo e gradazione a minorenni, a donne in stato interessante, a persone in stato psico-fisico alterato e a persone con delle patologie pregresse. Tali divieti sono già in essere e occorre accrescere i controlli e le sanzioni per chi non ottempera a tali divieti a livello di commercializzazione”. Conclude: “La massima attenzione va rivolta ai giovani fra gli 11 e i 24 anni che bevono fuori pasto, con frequenze molto elevate e che soffrono talvolta di binge drinking ovvero di un consumo compulsivo e incontrollato dove l’alcool domina sugli aspetti sensoriali e sociali collegati al consumo di vino”. Alla luce delle criticità e delle possibili nuove norme proposte a livello europeo di utilizzare in etichettatura delle affermazioni molto forti che avvisano della cancerogenicità e del forte rischio per la salute derivata dal consumo di alcool, “diventa importantissima la comunicazione del rischio ai fruitori. Una comunicazione errata nel passato ha prodotto talvolta più danni che benefici. La comunicazione potrebbe basarsi su un uso del vino e di birre, escludendo soprattutto i superalcolici, collegato ad un pasto salutistico che rallenta l’assorbimento dell’alcool”.

Fabrizio Geremicca

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