Il prof. Andrea Ballabio è un ex-studente di Medicina della Federico II che ce l’ha fatta. Oggi dirige l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (TIGEM) dove si svolgono ricerche all’avanguardia su cinque filoni di studio: disturbi dello sviluppo, malattie oculari ereditarie, errori congeniti del metabolismo, genomica funzionale e biologia sistematica. Ballabio, classe 1957, dopo essersi laureato e specializzato in Pediatria a Napoli, si è dedicato alla ricerca nel campo delle malattie genetiche prima in Italia, poi in Inghilterra ed infine negli Stati Uniti dove è diventato Co-direttore del Centro Genoma Umano del Baylor College of Medicine di Houston. E’ stato poi grazie alla Fondazione Telethon che, nel 1994, è tornato in Italia per fondare il Tigem a Milano, trasferito poi nel 2000 a Napoli.
Non proviene da una famiglia di medici e da bambino non pensava di dedicarsi alla ricerca: “Mi sono sempre piaciuti i bambini e sin da piccolo ero affascinato dal mio pediatra, il prof. Paolo De Angelis, padre del famoso skipper Francesco. Durante l’internato in Pediatria e la Specializzazione mi sono occupato di seguire bambini con malattie genetiche e mi sono sempre più appassionato alla ricerca”.
Non proviene da una famiglia di medici e da bambino non pensava di dedicarsi alla ricerca: “Mi sono sempre piaciuti i bambini e sin da piccolo ero affascinato dal mio pediatra, il prof. Paolo De Angelis, padre del famoso skipper Francesco. Durante l’internato in Pediatria e la Specializzazione mi sono occupato di seguire bambini con malattie genetiche e mi sono sempre più appassionato alla ricerca”.
Gli Stati Uniti,
“il paese dei
balocchi
della ricerca”
“il paese dei
balocchi
della ricerca”
L’esperienza all’estero di Ballabio è iniziata mentre frequentava la Specializzazione quando ha trascorso un anno e mezzo a Londra al Guy’s Hospital – Pediatric Research Unit: “Lì ho trovato una realtà diversa da quella italiana, meglio organizzata, ma forse non tanto aperta come me l’aspettavo”. Poi è ritornato in Italia dove ha lavorato all’Istituto di Genetica e Biofisica del CNR: “Per me quello è stato un periodo fondamentale. Ho seguito la dottoressa Graziella Persico, scomparsa pochi anni fa, che è stata un punto di riferimento importantissimo. Era appena tornata dagli USA, conosceva tecniche e approcci innovativi per la ricerca. A quell’epoca lavoravo contemporaneamente al CNR e a Pediatria. Facevo una vitaccia”.
Dopo due anni è partito per gli USA con una borsa di studio americana per lavorare presso il Dipartimento di Genetica molecolare del Baylor College of Medicine di Houston dove ha trovato una realtà entusiasmante: “Ero nel Paese dei balocchi della ricerca. C’era un’organizzazione fantastica, molto ben finanziata. Il capo del Dipartimento mi ha subito supportato, tra i colleghi c’erano esperti in tutti i campi con cui potevo interagire per imparare tantissime cose diverse. Un’esperienza fantastica”. A Houston il professore ha fatto una carriera rapidissima: dopo un anno da borsista gli è stato proposto di diventare Associate Professor e responsabile di un gruppo di ricerca. “Nel giro di pochi giorni la mia situazione è cambiata radicalmente: ho avuto un ufficio, un laboratorio, dei finanziamenti per reclutare giovani che lavorassero con me. In Italia ci sarebbero voluti anni”. Dopo 7 anni era diventato Co-Direttore del Centro Genoma Umano: “Il mio laboratorio era pieno di stranieri, c’erano anche una quindicina di italiani. Alcuni di loro lavorano tutt’oggi nel mio Istituto, altri sono sparsi per il mondo”.
Il rientro in Italia è stato possibile solo grazie alla Fondazione Telethon che gli ha dato carta bianca per dar vita ad un nuovo Istituto di ricerca: “Non è stato facile lasciare tutto quello che avevo costruito lì. Telethon mi ha dato un forte stimolo per e dedicarmi a questa nuova avventura”.
Dopo due anni è partito per gli USA con una borsa di studio americana per lavorare presso il Dipartimento di Genetica molecolare del Baylor College of Medicine di Houston dove ha trovato una realtà entusiasmante: “Ero nel Paese dei balocchi della ricerca. C’era un’organizzazione fantastica, molto ben finanziata. Il capo del Dipartimento mi ha subito supportato, tra i colleghi c’erano esperti in tutti i campi con cui potevo interagire per imparare tantissime cose diverse. Un’esperienza fantastica”. A Houston il professore ha fatto una carriera rapidissima: dopo un anno da borsista gli è stato proposto di diventare Associate Professor e responsabile di un gruppo di ricerca. “Nel giro di pochi giorni la mia situazione è cambiata radicalmente: ho avuto un ufficio, un laboratorio, dei finanziamenti per reclutare giovani che lavorassero con me. In Italia ci sarebbero voluti anni”. Dopo 7 anni era diventato Co-Direttore del Centro Genoma Umano: “Il mio laboratorio era pieno di stranieri, c’erano anche una quindicina di italiani. Alcuni di loro lavorano tutt’oggi nel mio Istituto, altri sono sparsi per il mondo”.
Il rientro in Italia è stato possibile solo grazie alla Fondazione Telethon che gli ha dato carta bianca per dar vita ad un nuovo Istituto di ricerca: “Non è stato facile lasciare tutto quello che avevo costruito lì. Telethon mi ha dato un forte stimolo per e dedicarmi a questa nuova avventura”.
I ricordi da studente
“Al primo anno
eravamo in 2.500”
“Al primo anno
eravamo in 2.500”
Ballabio poi è diventato professore a Siena, a Milano, alla Sun ed infine alla Federico II dove oggi è Ordinario di Genetica medica alla Facoltà di Medicina: “Insegnare mi è sempre piaciuto moltissimo. E’ gratificante, soprattutto quando ci sono studenti brillanti che seguono e pongono domande intelligenti. E poi preparando le lezioni si impara a esprimere in maniera chiara i concetti”. Molti dei capigruppo del Tigem sono professori universitari. “Siamo pieni di studenti che svolgono dai noi la tesi o il dottorato”, dice il professore che ricorda con piacere i suoi anni universitari: “In quel periodo a Medicina c’era il boom delle iscrizioni. Al primo anno eravamo in 2500. Con tanti iscritti non si poteva fare un grande percorso didattico però avevamo grandissimi docenti. Uno per tutti il mio maestro di Pediatria, il prof. Generoso Andria”.
“Il mio maestro di Pediatria, il prof. Generoso Andria”
Che studente era Ballabio? Uno di quelli che apprende in metà tempo suscitando l’invidia dei colleghi?, gli chiediamo. “Un pochino sì – ammette – Sicuramente ho dovuto studiare molto, mi sono dovuto legare alla sedia, ricordo anche alcuni ritiri pre-esame di una settimana assieme ai colleghi, ma non ho mai sacrificato totalmente la vita allo studio”. L’importante, dice, è studiare in maniera intelligente: “Capire quali cose vanno approfondite, quali sono le persone, tra i colleghi e i professori, a cui chiedere consigli e spiegazioni. Non bisogna chiudersi in sé stessi ma essere sempre aperti a confrontarsi con gli altri”.
Lo spirito di gruppo che emerge dai racconti universitari del professore si rispecchia in pieno nella metodologia di lavoro dei gruppi di ricerca del Tigem: “Non abbiamo fatto altro che importare l’organizzazione della ricerca degli istituti americani. Da noi c’è una atmosfera estremamente poco formale e gerarchica. Siamo tutti consapevoli di lavorare assieme per obiettivi comuni. La nostra è una vera e propria squadra”.
Ballabio è un uomo che coltiva mille passioni: la ricerca, la didattica ma anche lo sport a livello competitivo, in particolare lo sci: “Di interessi ne ho troppi. Non mi bastano le 24 ore per fare tutto ciò che mi piace. Non sono mai stato uno che aveva come unico obiettivo la ricerca. Amo la vita a 360 gradi”.
Lo spirito di gruppo che emerge dai racconti universitari del professore si rispecchia in pieno nella metodologia di lavoro dei gruppi di ricerca del Tigem: “Non abbiamo fatto altro che importare l’organizzazione della ricerca degli istituti americani. Da noi c’è una atmosfera estremamente poco formale e gerarchica. Siamo tutti consapevoli di lavorare assieme per obiettivi comuni. La nostra è una vera e propria squadra”.
Ballabio è un uomo che coltiva mille passioni: la ricerca, la didattica ma anche lo sport a livello competitivo, in particolare lo sci: “Di interessi ne ho troppi. Non mi bastano le 24 ore per fare tutto ciò che mi piace. Non sono mai stato uno che aveva come unico obiettivo la ricerca. Amo la vita a 360 gradi”.
“Consiglio di
studiare su
testi in inglese”
Nella sua carriera ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali per la ricerca. Tra i risultati più importanti raggiunti dal suo team l’identificazione di malattie genetiche, tra cui malattie oculari, neurologiche e malformazioni congenite. La scoperta più recente, lo scorso giugno, consiste nell’individuazione di un sistema che, opportunamente stimolato, può eliminare dalle cellule le molecole tossiche responsabili di gravi patologie neurodegenerative. L’attività di ricerca è ciò che più di tutto anima la sete di sapere del professore fornendogli due stimoli: uno conoscitivo, l’altro filantropico: “Il fascino della scoperta scientifica mi ha sempre attratto in maniera quasi magica. Scoprire prima degli altri dà un’emozione non seconda a nessun altra. Accanto a questo c’è la consapevolezza che la scoperta di un ricercatore biomedico potrebbe portare alla risoluzione di problemi della salute, alleviare la sofferenza, fornire una cura. Non è sempre così ma c’è questa possibilità”.
Tra le qualità indispensabili al ricercatore, annovera al primo posto l’intelligenza, al secondo la passione ed infine la voglia di sacrificarsi: “Quando si è molto entusiasti la fatica non si avverte. Importante è anche l’ordine mentale, cioè la capacità di individuare le priorità, di scegliere le strade migliori”.
Sono ovviamente doti preziose anche per chi deve procedere negli studi. Ma quali sono le tappe obbligate di chi sogna un giorno di dedicarsi allo studio di geni e genomi? “Se si vuole fare ricerca biomedica, cioè applicata all’uomo, conviene iscriversi a Medicina perché dà una formazione a più ampio spettro – risponde – Io suggerisco di laurearsi in Medicina e, appena possibile, entrare in un Istituto di Ricerca per avere un’esposizione alla vita di laboratorio, imparare come si legge una rivista scientifica, come si imposta un progetto di ricerca. Poi occorre rientrare in un progetto di dottorato, anche in Italia ma l’ultimo anno va fatto all’estero dove consiglio di continuare il soggiorno per altri due anni”.
Questo è il percorso migliore. Finito questo periodo di formazione si possono cercare buone opportunità lavorative: “In Italia sono poche ma ci sono. All’estero è tutto più facile. Ci tengo a sottolineare che nel percorso formativo di un medico con la M maiuscola e anche di un ricercatore con la R maiuscola è fondamentale, quasi obbligatorio trascorrere un periodo all’estero”.
Per diventare ricercatore, infine, imparare l’inglese è “di importanza stratosferica. Bisogna saperlo parlare e scrivere molto bene. Consiglio agli studenti di studiare su testi in inglese: sono più aggiornati e aiutano a progredire con la lingua”.
Manuela Pitterà
studiare su
testi in inglese”
Nella sua carriera ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali per la ricerca. Tra i risultati più importanti raggiunti dal suo team l’identificazione di malattie genetiche, tra cui malattie oculari, neurologiche e malformazioni congenite. La scoperta più recente, lo scorso giugno, consiste nell’individuazione di un sistema che, opportunamente stimolato, può eliminare dalle cellule le molecole tossiche responsabili di gravi patologie neurodegenerative. L’attività di ricerca è ciò che più di tutto anima la sete di sapere del professore fornendogli due stimoli: uno conoscitivo, l’altro filantropico: “Il fascino della scoperta scientifica mi ha sempre attratto in maniera quasi magica. Scoprire prima degli altri dà un’emozione non seconda a nessun altra. Accanto a questo c’è la consapevolezza che la scoperta di un ricercatore biomedico potrebbe portare alla risoluzione di problemi della salute, alleviare la sofferenza, fornire una cura. Non è sempre così ma c’è questa possibilità”.
Tra le qualità indispensabili al ricercatore, annovera al primo posto l’intelligenza, al secondo la passione ed infine la voglia di sacrificarsi: “Quando si è molto entusiasti la fatica non si avverte. Importante è anche l’ordine mentale, cioè la capacità di individuare le priorità, di scegliere le strade migliori”.
Sono ovviamente doti preziose anche per chi deve procedere negli studi. Ma quali sono le tappe obbligate di chi sogna un giorno di dedicarsi allo studio di geni e genomi? “Se si vuole fare ricerca biomedica, cioè applicata all’uomo, conviene iscriversi a Medicina perché dà una formazione a più ampio spettro – risponde – Io suggerisco di laurearsi in Medicina e, appena possibile, entrare in un Istituto di Ricerca per avere un’esposizione alla vita di laboratorio, imparare come si legge una rivista scientifica, come si imposta un progetto di ricerca. Poi occorre rientrare in un progetto di dottorato, anche in Italia ma l’ultimo anno va fatto all’estero dove consiglio di continuare il soggiorno per altri due anni”.
Questo è il percorso migliore. Finito questo periodo di formazione si possono cercare buone opportunità lavorative: “In Italia sono poche ma ci sono. All’estero è tutto più facile. Ci tengo a sottolineare che nel percorso formativo di un medico con la M maiuscola e anche di un ricercatore con la R maiuscola è fondamentale, quasi obbligatorio trascorrere un periodo all’estero”.
Per diventare ricercatore, infine, imparare l’inglese è “di importanza stratosferica. Bisogna saperlo parlare e scrivere molto bene. Consiglio agli studenti di studiare su testi in inglese: sono più aggiornati e aiutano a progredire con la lingua”.
Manuela Pitterà