La storia di Kamila, studentessa siriana

“La sensazione peggiore era l’ansia. Continua. C’era sempre la paura che potesse accadermi qualcosa di brutto o che capitasse ai miei familiari. Ogni giorno così”. La guerra raccontata da una ragazza di 20 anni è, prima ancora che rombo di aerei, bombe, soldati ad ogni angolo di strada, una inquietudine che diventa parte di sé, che avvelena i giorni e le notti, che impedisce di pensare a qualcosa che non sia la mera sopravvivenza quotidiana. Kamila Zahida, ventiduenne siriana, ha vissuto così dal 2012 al 2016 a Damasco, la capitale di uno Stato nel quale, da oltre sette anni, si fronteggiano gruppi armati contrapposti: i fedelissimi del dittatore Assad, i paladini dell’Isis che vorrebbero creare tra la Siria e l’Iraq un Califfato basato sul fanatismo, sul sangue e sull’intolleranza, i miliziani dell’esercito di liberazione siriano, fazioni riconducibili all’integralismo sunnita, eserciti dei Paesi confinanti ed aerei delle potenze occidentali e della Russia. Kamila è in Italia da nove mesi e da otto vive a Portici. Si è appena immatricolata alla Federico II – studierà Archeologia – grazie al progetto che ha messo a disposizione 100 borse di studio per giovani rifugiati, ai quali è garantita la possibilità di accedere gratuitamente ai Corsi di Laurea.
Come è scappata dalla Siria e come è arrivata in Italia?
“Siamo fuggiti in auto. Tutta la famiglia. Papà, che è muratore, mamma e noi fratelli e sorelle. Siamo riusciti a raggiungere il Libano. Siamo rimasti lì per un po’, circa 15 giorni, poi, grazie all’attivazione dei corridoi umanitari concordata tra il vostro governo, la Chiesa Valdese e la Comunità di Sant’Egidio, siamo venuti in Italia. Un mese a Roma e poi Napoli. O, meglio, Portici”.
Cosa faceva a Damasco?
“Studiavo Archeologia all’università. Ero brava, mi impegnavo. Finché ho potuto, ho continuato, ma l’ultimo anno è stato veramente terribile. I combattimenti erano sempre più frequenti e più vicini a noi. C’era la sensazione, il terrore che l’Isis potesse entrare da un momento all’altro in città. Sono stati sospesi i corsi. La mia famiglia ha cominciato a programmare di fuggire. Noi non volevamo andare via dalla Siria, ma siamo stati obbligati a farlo”.
La scelta di Archeologia, qui alla Federico II, è dunque un modo per riprendere un percorso così traumaticamente interrotto?
“Per la verità sono stata a lungo indecisa se immatricolarmi ad Architettura oppure ad Archeologia. Alla fine ho deciso per quest’ultima. Spero di avere scelto bene”. 
Napoli che sensazioni le ha suscitato?
“Mi sono sentita accolta. Ho percepito affetto. Il cibo, poi, è davvero ottimo. In questa città c’è tanta gente buona e di cuore”.
Suo padre ha ripreso a lavorare?
“Per ora no, purtroppo. Non ha ancora trovato nulla”.
Immagina il suo futuro in Italia, in Siria o dove?
“È un problema che al momento non mi pongo. Adesso quello che mi interessa è studiare qui, fare del mio meglio. Dopo lo studio ci si può sempre muovere per lavorare”.
Lei parla già un italiano più che buono. Come ha imparato così velocemente?
“Cerco di impegnarmi, di capire, di ricordare le parole che ascolto ogni giorno. Poi, naturalmente, studio. Frequento la scuola di lingua della comunità di Sant’Egidio”.
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