Valutazione: “l’Anvur vuole trasformarci in burocrati” e “compilacarte”

“Sebbene l’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione) voglia trasformarci in burocrati, promuovendo perfino incontri per spiegare come compilare la Scheda Unica di Valutazione, noi non vogliamo perdere l’abitudine di organizzare conferenze. Se l’università diventa un mondo di compilacarte, chi resterà a fare ricerca?”. Con queste parole il prof. Franco Garofalo, docente di Automatica alla Federico II, ha introdotto l’incontro, di cui è stato promotore con il prof. Luigi Glielmo dell’Università del Sannio, “Spesa, risultati, efficienza: miti, leggende e realtà dell’università italiana”. Ospite del seminario, che si è svolto il 24 gennaio presso la sede di Piazzale Tecchio della Facoltà di Ingegneria, il prof. Giuseppe De Nicolao, ordinario di Automatica all’Università di Pavia e redattore del blog ROARS (Return On Academics ReSearch, roars.it/online/) dedicato ai temi dell’università e della ricerca nel nostro Paese. ‘L’università italiana è un sacco bucato, in cui non vale la pena infilare altre risorse’, è quanto sosteneva l’ex-Ministro per l’Università e la Ricerca Maria Stella Gelmini nel 2010, nei mesi critici dell’approvazione della legge di riforma. Qualunque discorso sull’accademia italiana, sui suoi ritardi e le sue urgenze, sottolinea De Nicolao, non può prescindere, però, dal contesto di riferimento: “Che è diventato come l’aria che respiriamo: non ne siamo nemmeno più consapevoli, ma va analizzato. Altrimenti ogni sforzo per valutare correttamente i nostri problemi è destinato all’insuccesso”, afferma del suo preambolo il docente presentando i dati di un’attenta indagine scientifica, fondata sui dati certificati dell’OCSE e sulle statistiche bibliometriche. Lo spunto polemico viene dalle pubblicazioni di autori come gli economisti Francesco Giavazzi e Roberto Perotti (autore del libro L’Università truccata) che hanno perorato la causa di un radicale processo di snellimento del sistema universitario, attraverso la riduzione dell’offerta e la chiusura delle sedi meno efficienti. Ma anche dalle prese di posizione di persone come Sergio Benedetto, consigliere direttivo dell’ANVUR, che nel 2012 anticipava delle chiusure. “All’inizio tutto questo materiale sembrava anche sensato, poi ho cominciato a guardare qualche dato per conto mio, mettendo a confronto spesa e risultati, per trarre delle informazioni sull’efficienza”, dice ancora De Nicolao, spiegando il metodo di lavoro. 
Tasse, le terze più 
care in Europa
Nell’opinione pubblica è diffusa l’idea che il sistema italiano, con la sua novantina di università – sessantuno delle quali statali (fra queste, solo una cinquantina presentano un’offerta completa fino al dottorato) ventotto non statali e undici telematiche -, sia sovradimensionato. Sulla base delle informazioni raccolte da Marino Regini, docente della Statale di Milano autore del libro Malata e Denigrata: l’Università italiana a confronto con l’Europa, nel 2009 l’Italia presentava, includendo anche le private e le telematiche, il più scarso rapporto fra numero di università e popolazione (1,6 per milione di abitanti) e fra numero di Corsi per abitanti. Dal canto suo, l’OCSE sostiene che per investimento in ricerca e sviluppo in relazione al Prodotto Interno Lordo ci posizionano al trentaduesimo posto in una classifica di trentasette nazioni. Inoltre, mentre altri Paesi hanno reagito alla crisi finanziaria aumentando la spesa per la formazione globale, noi siamo fra quelli che hanno tagliato di più, peggio ha fatto solo l’Estonia. Secondo le stesse statistiche, su venticinque nazioni, siamo anche fra i peggiori per rapporto docenti-studenti e per numero di ricercatori universitari. Sfatando un mito in base al quale la nostra università è particolarmente economica, i dati mostrano che l’Italia è fra i paesi che offrono meno servizi e sostegno agli studenti, in rapporto alle tasse richieste, le quali, per esosità, sono le terze più care d’Europa, dopo quelle che si pagano in Gran Bretagna e Paesi Bassi. Quali soluzioni, dunque, per un’università globalmente sottofinanziata? Alla proposta degli economisti Andrea Ichino e Daniele Terlizzese, apparsa sul Corriere della Sera, di alzare le tasse, introducendo il prestito d’onore, si affianca quella di Perotti, il quale nel suo libro suggerisce di introdurre ‘esche per attirare studenti’, come stanze singole dotate di televisione via cavo e vasche idromassaggio. “Un sistema di questo tipo esiste negli Stati Uniti ma l’agenzia Moody’s ha dimostrato che la dinamica della spesa universitaria, che aumenta più di quella per la Sanità e l’Energia, è fuori controllo. Il tema del debito universitario sta diventato un tema centrale per la stampa statunitense – sottolinea ancora De Nicolao – Non funziona nemmeno il sistema britannico, nel quale il prestito universitario si restituisce solo se una persona guadagna abbastanza. In una ricerca, si scopre che il 35% dei giovani britannici non pensa più di potersi permettere la laurea”. 
Ricerca e prestigio
 internazionale
A fronte dei dati mostrati, bisogna chiedersi quale sia il ruolo della ricerca italiana nel panorama internazionale. Secondo la vulgata non sarebbe particolarmente significativo, perché nelle classifiche pubblicate nessun ateneo italiano appare mai nelle prime cento posizioni. “Quello delle classifiche è un argomento ripetuto in maniera ossessiva, anche perché è molto semplice da comunicare, ma su questi numeri bisogna lavorarci”, mette in guardia De Nicolao che dimostra un altro punto di vista. Le università nel mondo sarebbero circa diecimila ma nelle classifiche, di norma, vengono selezionate le prime cinquecento, senza tener conto delle spese e dei bilanci che per alcune di esse sono confrontabili con quelli di piccole nazioni. Comparire in queste graduatorie significa essere nel 5% del vertice mondiale. Il prof. Regini ha rilevato la presenza delle accademie del Belpaese nelle principali classifiche internazionali di riferimento. Gli elementi di forza, per tutte le analisi, sono rappresentati da reputazione, ricerca scientifica e numero di citazioni, mentre quelli di debolezza dall’internazionalizzazione e dal rapporto studenti-docenti.
Un articolo comparso su Nature nel 2004 invitava a prendere in considerazione, in modo aggregato, i dati bibliometrici (disponibili prevalentemente per le discipline scientifiche). Da questi risulta che, nel periodo 1996-2011, l’Italia è settima al mondo per produzione scientifica e ottava per numero di citazioni. Paradossi che convivono con il più basso tasso di laureati nell’età compresa fra i 25 ed i 34 anni (dietro di noi solo Turchia, Brasile e Cina, ma in Italia le immatricolazioni sono in drammatico calo).
Secondo l’opinione diffusa avremmo gli universitari più finanziati del mondo dopo quelli di Stati Uniti, Svizzera e Svezia. Perotti sostiene che uno studente a tempo pieno costa sedicimila dollari e che le statistiche OCSE, le quali affermano diversamente, non tengono conto dei fuori corso perché l’Italia ‘sarebbe l’unico paese al mondo a soffrire di un simile problema’. “Perfino il Ministro Profumo l’ha detto due volte”, prosegue il docente di Pavia, ma quella degli studenti che non riescono a terminare gli studi in tempo è una piaga mondiale. “La manipolazione dell’informazione è stata fondamentale in questi anni per intervenire sull’università diffondendo convinzioni errate anche dentro l’accademia – dice in conclusione il relatore – Per troppi anni siamo stati nelle mani degli apprendisti stregoni e certe ricette dell’ANVUR sono l’equivalente delle pozioni magiche. Per il futuro occorrono competenza ed onestà nell’analisi, conoscenza delle situazioni internazionali e terapie basate su conoscenza dei fatti. Basta con leggende su prestiti e fuoricorso, perché il nostro Paese sembra aver fatto la scelta strategica di impoverire la propria cultura”.
Il dibattito
Alla lunga presentazione segue un interessante dibattito.
“Come valutare il fenomeno del nepotismo?”, domanda il prof. Garofalo. “Elaborare delle statistiche basate sull’analisi delle omonimie è difficile, perché il familismo amorale è un problema del sistema paese nel suo complesso, non limitato all’università. Svolgendo un’analisi nei macrosettori, che sono molto ampi, si scopre che ci può essere una componente nepotistica, ma restringendo le indagini ai settori scientifico disciplinari si evince che la percentuale di omonimie è addirittura al di sotto della norma”, risponde De Nicolao. 
“I ricercatori in Italia costano pochissimo perché guadagnano anche pochissimo e spesso dietro le pubblicazioni c’è il lavoro di tante persone non pagate che per anni lavorano per il professore”, interviene il prof. Giovanni Celentano.
“Altre categorie, penso ai magistrati, si riconoscono nel proprio ruolo e nel modo in cui dialogano con le istituzioni, a prescindere dagli specifici schieramenti. Fra i docenti universitari non esiste un atteggiamento analogo, mentre sarebbe importante far nascere un dibattito al nostro interno, per avere un impatto maggiore. Del resto non dobbiamo nemmeno nasconderci che le eccellenze ed il lavoro sottopagato celano aree di assoluta inefficienza. Per questo lo sforzo per una valutazione oggettiva è impegnativo ed importante. In molti paesi, in cui il sistema della valutazione è consolidato, si cambiano continuamente le regole per trovarne di migliori”, sottolinea il prof. Guglielmo Rubinacci. “Uno dei problemi dell’ANVUR è la commistione fra un livello ideologico ed uno tecnico. In Francia un’agenzia per la quale noi di ROARS nutrivamo grande stima è stata chiusa per delirio burocratico, per una commistione analoga. Non si può partire dal presupposto che ci siano delle sedi da chiudere, ma siamo all’osso ed il Fondo di Finanziamento Ordinario non copre più le spese. Noi dobbiamo recuperare un senso di appartenenza importante, non corporativo, perché il nostro ruolo in termini di progresso è fondamentale e l’ANVUR stessa, recentemente, ha ritrattato delle posizioni”, risponde ancora De Nicolao.
Molti sono anche coloro che vogliono condividere le proprie riflessioni con i colleghi.
“I dati dei ricercatori italiani sono in media con quelli del mondo, ma ci sono aspetti peculiari del nostro sistema. Per esempio, i costi della nostra ricerca sono più bassi, perché c’è una quota di persone non contrattualizzate delle quali l’OCSE non può tener conto. Il grande danno della legge Gelmini è la scomparsa della figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituito da quello a tempo determinato. I risultati si vedranno fra quattro o cinque anni. Il sistema, purtroppo, è allo sbando, tante università sono già alla bancarotta. La scelta di tanti ragazzi di andare a fare il dottorato all’estero è un sintomo”, interviene il ricercatore Gianluca Imbriani.
“Come si interviene, come si trova la fiducia per ripartire dal momento che tendiamo a livellare tutto, quando, invece, l’università dovrebbe essere il posto in cui la qualità emerge naturalmente, senza comprimerla?”, domanda il prof. Giovanni Miano.
“Esporre questi dati richiede coraggio ma continuano ad esserci dei problemi da affrontare in due fasi: confutare in maniera logica e mettere in discussione il livello finanziario”, sostiene il ricercatore Davide Mattera.
“Il processo in atto e la campagna diffamatoria in corso potrebbero portare a squilibri enormi ed alla chiusura di sedi al Sud per avere due università del Nord nelle prime dieci al mondo”, aggiunge il prof. Giuseppe Gentile. 
“Stiamo attenti a quelle classiche internazionali che valutano migliore la ricerca in campo filosofico dell’Università di Pechino, dove non c’è libertà di pensiero, rispetto a quella dell’Università di Padova”, conclude la ricercatrice Valeria Pinto, autrice del libro Valutare e Punire.
Simona Pasquale
- Advertisement -





Articoli Correlati