“L’Unesco non ha affatto riconosciuto il napoletano come lingua, è una convinzione errata”

“Saprai sicuramente che l’Unesco ha riconosciuto il napoletano come seconda lingua ufficiale d’Italia. Non è affatto un dialetto”. In tanti dibattiti privati, che nascono abitualmente all’insegna di un campanilismo teso a difendere le proprie virtù territoriali per primeggiare sugli interlocutori di altre regioni o città campane, si è soliti fare riferimento all’argomento che per antonomasia legittimerebbe una presunta superiorità del vernacolo partenopeo a discapito di tutti gli altri. Niente di più falso. Come pure, di contro, l’utilizzo della parola dialetto – termine denigrante in apparenza – non implica affatto una delegittimazione della portata storico-locale di un tale sistema espressivo. Insomma, il campo della tradizione identitaria napoletana va sgomberato da tutta una serie di luoghi comuni fortemente radicati nel sentire comune. Delle fake news, di fatto. Che, oltretutto, trovano una diffusione incontrollata sui social, mezzi di comunicazione di massa che non fanno sempre della correttezza d’informazione il proprio faro. E nel percorso che dovrebbe portare a ristabilire alcune verità – deludenti, forse, per qualche non addetto ai lavori dedito alla strenua difesa di Napoli tramite convinzioni errate – il prof. Nicola De Blasi, docente di Linguistica Italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici della Federico II nonché dialettologo, si veste da Virgilio e fa da guida. “Bisogna fare subito chiarezza – spiega – l’atlante delle lingue del mondo che l’Unesco pubblica periodicamente si basa su un fraintendimento delle nozioni di dialettologia italiana. L’idea di fondo è quella di tutelare le lingue che risultano vulnerabili, e nell’eseguire il proprio lavoro di classificazione, relativamente all’Italia, l’organizzazione mondiale per l’educazione e la cultura usa una certa terminologia che però non consta della parola dialetto. È chiaro il tentativo di offrire un quadro articolato della geografia linguistica italiana, ma è altrettanto palese l’eccessiva semplificazione. Dunque viene veicolata inconsapevolmente questa idea: a partire dalle Marche meridionali, e fino a gran parte della Puglia e della Calabria, esista una sola lingua, il napoletano-calabrese o italiano del sud. Di conseguenza chi legge in rete ne trae un’informazione sbagliata, perché pare che questa carta geografica implichi un certo riconoscimento ufficiale del napoletano. Ma non è così. Ciò è sperimentabile da un cittadino qualsiasi. A Caserta, Avellino, o nell’entroterra beneventano, nessuno parla il napoletano. La Campania è molto diversificata a ben vedere, figurarsi se ci si dovesse spingere fuori dai confini regionali. I singoli dialetti sembrano muoversi all’interno di prospettive ampie, in realtà, all’occhio di chi studia, risultano finestre sul cortile”.
“I dialetti sono sistemi linguistici che derivano dal latino”
Ma per i più delusi da questo chiarimento, ne consegue un altro, che non mette affatto in discussione la centralità culturale del nostro vernacolo, così come di tutti gli altri. “Un’altra convinzione errata poggia sulla percezione che i dialetti siano una deformazione della lingua, cioè, nel nostro caso, un modo sbagliato di parlare l’italiano. Non è così. I dialetti sono sistemi linguistici che derivano dal latino, e, attraverso una serie di modificazioni, giungono alle forme contemporanee, così come le lingue ufficiali che conosciamo. Quindi non c’è niente di più sbagliato che inferire dal termine dialetto qualcosa di minore o inferiore. Con l’ampio raggio d’azione del dialetto, invece, si indica un sistema linguistico locale che si differenzia da altri, naturalmente”. 
E, ad ulteriore testimonianza di quanto la rete possa essere divulgatrice di fake news, De Blasi – come pure ben rende conto di queste tematiche nel libro “Il dialetto nell’Italia unita. Storia, fortuna e luoghi comuni” – smonta ulteriori certezze che sembrano poggiare le proprie fondamenta su fatti storici. Da un lato, il fatto che “dopo l’Unità d’Italia il vernacolo è stato messo all’angolo da alcune iniziative legislative”, si dice. “In realtà – insiste il dialettologo – dopo il processo di unificazione ha avuto molto più spazio. Nelle arti, negli studi, nel teatro, nella poesia. E a ben vedere pure nei programmi scolastici, che hanno mostrato maggiore interesse”. In secondo luogo, va ristabilita la verità rispetto al detto “una lingua è un dialetto con un esercito e una marina militare”. Di sicuro, rintuzza De Blasi, “questo è falso in merito all’italiano, che è diventato lingua degli italiani a partire da Dante in poi, irrobustendosi nel tempo. Dunque prima che esistesse uno Stato. La Firenze dell’epoca non era affatto una capitale potente dal punto di vista militare”. 
Chiude il cerchio, tornando alla contemporaneità, il rapporto del vernacolo con i social. Che generano un paradosso: in parte veicolo di informazioni non corrette; da un altro punto di vista “manifestazione recente della fortuna dei dialetti”, ancora il docente, che sottolinea come ogni azione dello scrivente e del parlante entri nell’orizzonte del linguista. Sui social si ritrova in sostanza l’uso quotidiano che se ne fa del napoletano, ma messo su carta, con tutte le conseguenze del caso. Tant’è vero che “saltano agli occhi problemi che non notiamo. Se si ha poca dimestichezza con la scrittura del dialetto, e ciò vale pure per l’italiano, vengono fuori le carenze grammaticali e ortografiche. Il professor Francesco Montuori (docente di Linguistica italiana e Coordinatore del CdS in Lettere Moderne ndr) ed io stiamo lavorando ad un dizionario storico-etimologico del napoletano, proprio per spianare la strada alla corretta divulgazione e incentivare lo studio approfondito”. Progetto, questo, che fa il paia con la legge promulgata due anni fa dalla Regione Campania volta alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio linguistico del territorio. 
 
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