Da medico ad ammalato, l’odissea Covid del prof. Ivan Gentile

Lo scorso 8 marzo il prof. Ivan Gentile, associato di Malattie Infettive presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia della Federico II, Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive e Tropicali, ha scoperto di essere positivo al Coronavirus (Covid-19). In prima linea, il prof. Gentile ha dovuto ‘concedersi’ una pausa dal lavoro, in piena emergenza sanitaria, per combattere contro un mostro invisibile che da due mesi paralizza il Paese e cerca di mettere knock-out il sistema sanitario nazionale.
Raggiunto telefonicamente, la prima domanda doverosa è: Professore come sta? “Finalmente sto bene, mi sono ripreso completamente e sono ritornato al lavoro. L’esperienza che ho vissuto nelle ultime settimane è stata a dir poco ‘particolare’”.
Procediamo con ordine. Come ha scoperto di essersi contagiato? Lei è un medico, a contatto con pazienti positivi, ha mai pensato di aver contratto il virus proprio in ospedale? “Non ho certezza di dove mi sia contagiato. In quel periodo partecipavo a numerose Task Force regionali e comunali per il Covid-19, tutte riunioni de visu che includevano momenti di aggregazione nell’ambito dell’Azienda Ospedaliera. Non credo sia facile tracciare il contatto, il momento in cui sono stato contagiato. All’inizio i sintomi assomigliavano ad un’influenza, ho avuto febbre per due giorni. Con la coscienza di ciò che poteva essere, per proteggere i miei colleghi ed i pazienti, mi sono auto-isolato. L’8 marzo dopo aver effettuato il tampone sono risultato positivo”.
“È fondamentale provare a mitigare la solitudine”
Un percorso non proprio semplice che ha portato il prof. Gentile ad un successivo ricovero ospedaliero. Com’è stato passare da medico a paziente, come si sta dall’altra parte della barricata? “Ci sono stati 10 giorni – i peggiori – in cui ero completamento isolato dal mondo. Ricordo che, quando l’infermiera veniva a portarmi il vitto, cercavo nel suo sguardo un sorriso. L’isolamento credo sia la maggiore sofferenza in assoluto, oltre al malessere fisico incessante”. Che cosa le ha insegnato questo periodo di solitudine forzata? “Ogni malattia porta con sè un cambiamento. Personalmente mi ha insegnato a dare valore alle cose che facciamo nella quotidianità, cose che davo prima per scontate: una telefonata, un abbraccio ad un amico e via dicendo. Da medico, invece, l’esperienza le ha portato una nuova prospettiva? “Per quel che concerne il lavoro, la malattia mi ha dato una maggiore consapevolezza dell’umanizzazione delle cure. Mi sono chiesto cosa potessi fare per chi, ad esempio, ha un casco in testa e non può videochiamare. Ho sperimentato cosa significa essere lontani, senza contatto con la famiglia. In ospedale, abbiamo così deciso di chiamare i familiari dei pazienti che non sono autonomi. Non che prima non lo facessimo, ma adesso c’è una nuova presa di coscienza”. Ogni esperienza “ci arricchisce. Quello che il Covid mi ha fatto provare mi ha indotto a trovare nuove strategie per trarre sollievo nel periodo di isolamento. È fondamentale provare a mitigare la solitudine. Stiamo lavorando per avere a disposizione ulteriori strumenti tecnologici per comunicare, per far sentire le persone meno sole. Non solo per chi è ricoverato, ma anche chi resta a casa in attesa di notizie”.
Mascherine ed evitare gli assembramenti in Fase 2
In questi giorni si parla tanto di Fase 2. Da medico e da ex paziente cosa sente di dire per questa lenta ripartenza? “Ogni virus deve essere contestualizzato. Quando c’era una grossa circolazione del Covid 19, ad inizio marzo, il lockdown è stato necessario. Ma ogni arresto ha un prezzo. Per tutti il prezzo della recessione, per i malati cronici l’impossibilità di curarsi come prima, per i pazienti psichiatrici la deleteria reclusione in casa. Insomma, la ripresa è fondamentale, graduata a seconda delle necessità. Oggi è meno difficile di un mese fa. Ad esempio, fino a qualche settimana fa in reparto non avevamo posti liberi. In questi giorni iniziamo ad avere posti vuoti, a comunicare alle famiglie che i pazienti sono guariti, è una delle cose più belle”. Un consiglio: “Indossare sempre la mascherina che protegge noi dagli altri e gli altri da noi. Ricordiamoci che ci sono molti asintomatici e occorre evitare gli assembramenti inutili e se si può continuare a lavorare da casa. Solo il tempo ci aiuterà a capire quante persone effettivamente hanno contratto l’infezione, sperando poi di ritornare alla normalità. Al momento non si può e non si deve credere di poter tornare come prima, graduiamo le misure e attuiamo comportamenti responsabili”. Che cosa si augura e augura per il futuro? “Di potersi riabbracciare, di stringere la mano, di prendere un aperitivo fra amici. Un’alba di un’altra ‘epoca’ in cui si possa tornare presto alla normalità accorgendoci che non c’è nulla di scontato nelle nostre vite. Soprattutto mi auguro un vaccino che ci permetta di vivere in sicurezza. Che le persone infettate guariscano, sperando di non avere più il problema. Anche se questo vuol dire cambiare per un po’. Dovremmo essere più intelligenti e furbi dell’insidia del virus”. Un ultimo pensiero: “A tutte le persone che hanno perso la battaglia, a chi non ce l’ha fatta. Il pensiero va a loro e alle loro famiglie. Inoltre, vorrei ricordare i colleghi medici che hanno lasciato il vuoto in tutti noi. Ricordo uno fra tutti, il prof. Maurizio Galderisi, un grandissimo cardiologo, grande collega e uomo di forte umanità. Vorrei, inoltre, ringraziare la comunità federiciana per la vicinanza che mi ha dimostrato in tutta la mia vicenda. Dal Rettore Arturo De Vivo a tutti i docenti e studenti della Federico II che mi hanno scritto, telefonato, facendomi sentire la loro stima ed il loro affetto”.
 
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