Ventiquattro ottobre del 79 dopo Cristo (gli studiosi hanno recentemente spostato due mesi in avanti la data dell’evento), le dodici circa: un boato e poi una colonna eruttiva si solleva dal Vesuvio per un’altezza di circa trenta chilometri. Iniziano le due giornate che cancelleranno per secoli Pompei ed Ercolano.
La montagna – si era persa memoria nei secoli del suo potenziale distruttivo e per i pompeiani quella non era altro che un’altura lussureggiante di vegetazione – disvela la sua natura di vulcano distruttivo. “Il dramma – racconta il prof. Claudio Scarpati, docente di Vulcanologia presso il Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e delle Risorse della Federico II – non si compie immediatamente e dura complessivamente circa 40 ore. C’è una prima fase nella quale ricadono pomici per 19 ore su Pompei, accumulando circa tre metri di materiale. Come una enorme grandinata. Alcuni tetti crollano sotto il peso e sono quelli con le coperture che impediscono ai frammenti di scivolare. Quelli poco inclinati. Le pomici rotolano via, invece, da quelli più inclinati e si accumulano negli impluvi delle case o nelle strade. Circa il 40% dei pompeiani muore in questa fase della caduta delle pomici. Gli abitanti restano schiacciati dai crolli delle case”.
Una pausa, poi, ed una falsa speranza. “Dopo le prime 19 ore – va avanti il prof. Scarpati – c’è un momento nel quale l’eruzione pare placarsi. Chi è sopravvissuto tenta la fuga. C’è chi esce a fatica dal secondo piano della casa già semisommersa dalle ceneri, chi procede tra mille difficoltà lungo le strade, trasformate in un tappeto di pomici e rovine, e cerca di raggiungere le porte della città. Non si possono utilizzare carri o cavalli per allontanarsi. Si scivola, si cade, ci si rialza in un disperato tentativo di sfuggire alla sorte allontanandosi dalla città, che è ormai un cumulo di rovine”.
L’epilogo si compie quando la colonna eruttiva collassa al suolo e dalle falde del Vesuvio si irradiano in ogni direzione nubi ardenti. In prossimità del vulcano toccano i 500 gradi centigradi e, mano a mano che si propagano, pur raffreddandosi, spazzano via quello che incontrano sul proprio cammino. “Pompei dista 10 chilometri dal Vesuvio – ricorda il prof. Scarpati – e dunque non tutte le valanghe di gas, cenere e pomici la colpiscono con la forza che distrugge Ercolano, città più vicina al vulcano. Ne arrivano tre che non provocano danni tremendi. La quarta, però, non lascia scampo. Forse più che per la temperatura e per la forza d’urto in sé, perché satura di ceneri l’aria, rendendola irrespirabile. Molti muoiono asfissiati. Non c’è un solo superstite”.
Come un investigatore sulla scena del delitto, Scarpati sta continuando ad acquisire informazioni, dettagli, notizie su quella tragedia di quasi 2000 anni fa. “Indaghiamo – spiega – nell’ambito di una convenzione con il Parco archeologico, della quale sono il responsabile scientifico come Federico II. Questo ci consente di partecipare alle fasi di scavo tuttora in corso nella Regio V e nella Regio IX. Noi affianchiamo i funzionari e le ditte e ci impegniamo nella lettura vulcanologica dello scavo.
Appena sono dissepolti gli ambienti, poiché abbiamo un’accurata conoscenza degli strati accumulatisi durante l’eruzione del 79 dopo Cristo e dell’impatto che essa ebbe su Pompei, ricostruiamo esattamente come le diverse fasi del fenomeno eruttivo hanno determinato la distruzione dei vari ambienti e delle varie parti della città. Ci furono strutture che crollarono prima, altre dopo e per cause diverse. Cerchiamo di ricostruire momento per momento quel che accadde in quei due giorni e in quelle 40 ore d’inferno per i pompeiani”.
In questo contesto s’inquadra lo studio portato avanti sulla distruzione del Salone Nero con gli affreschi della guerra di Troia che è stato scoperto durante gli scavi in corso nella insula X della Regio IX. “Il salone non crolla subito. Le pomici si accumulano sul tetto spiovente e scivolano in un cortile interno davanti ad esso. Si forma un cumulo di alcuni metri e da lì le pomici scivolano verso l’interno perché evidentemente la porta d’ingresso è aperta. Nella prima fase di caduta delle pomici, che dura almeno sette ore, il tetto regge. Lo sappiamo perché all’interno non troviamo le pomici bianche, tipiche della prima fase della colonna eruttiva, ma un lembo di quelle grigie, che entrano in gioco in un secondo momento e sono diverse dalle prime per mutamenti del chimismo del magma”.
Dopo sette ore circa il tetto si appesantisce per le pomici, ma non crolla uniformemente: “Si aprono due buchi e lo sappiamo perché abbiamo trovato sul pavimento due cumuli di pomici grigie, che entrano appunto dai due buchi sul tetto. Si innalzano per un metro e mezzo e al loro interno ci sono frammenti di tegole. Trascorrono altre ore, il peso delle pomici si distribuisce più uniformemente e provoca la caduta di altre parti del tetto e della trave centrale. Non tutto, però, perché nella parte orientale del salone, molto ampia e molto lunga in direzione est – ovest, non abbiamo trovato pomici sul pavimento. Significa che lì il tetto si è mantenuto”.
La quarta corrente piroclastica che arriva a Pompei, quella che annienta la popolazione che cerca scampo spingendosi verso le porte della città, abbatte la parte alta del muro del Salone Nero che non è sostenuta dalle pomici. Il resto della struttura regge ed è sepolto. Durante la fase di scavo non sono state rinvenute vittime in quell’ambiente.
Fabrizio Geremicca
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Ateneapoli – n.08 – 2024 – Pagina 9