A Lettere il cantautore Marco Parente

“L’industria culturale ha mille sfaccettature, non è fatta solo di archeologia e beni culturali”: è la premessa con la quale la prof.ssa Nadia Barrella, responsabile del Placement del Dipartimento di Lettere e Beni Culturali (DILBEC), nonché Presidente del Corso di Laurea in Conservazione, ha aperto l’incontro “Solo tu ascoltavi i Sonic Youth in quel paesino del Sud… Idee per creare, comprendere, valutare, recensire e distribuire musica” tenutosi il 24 marzo presso il Dipartimento. “Abbiamo deciso di iniziare una serie di incontri con cantanti, produttori e dj. Con l’obiettivo di aprirci a quanti fanno della cultura il proprio lavoro, anche se non iscritti, così che il Dipartimento possa diventare un punto di riferimento per il territorio”, prosegue la professoressa. 
Al prof. Federico Paolini, docente di Storia Contemporanea, il compito di introdurre l’ospite della giornata, il cantautore Marco Parente, esponente di spicco della musica indipendente italiana che ha all’attivo collaborazioni con artisti come Afterhours, Carmen Consoli, Mauro Ermanno Giovanardi e Stefano Bollani. Il cantautore toscano ha ripercorso e condiviso con i presenti la propria carriera sin da quando, studente del liceo, decise che la musica sarebbe stato il suo lavoro: “durante il terzo liceo ho deciso che avrei vissuto di musica, ma il primo incontro è avvenuto con la batteria”, spiega. Nonostante piccoli successi e soddisfazioni come batterista, avvertiva dentro di sé una frustrazione crescente, fino a quando non è avvenuto quello che definisce l’incontro più importante della sua carriera: “ho ascoltato Jeff Buckley, ed è cambiato tutto. Il suo modo di cantare mi sembrava così naturale che ho pensato di poterci riuscire anche io. Mi sono chiuso nella mia camera per un anno e ne sono uscito con il mio primo disco”. L’album ‘Eppur non basta’ contiene un significativo omaggio ad Eduardo De Filippo, il brano ‘L’aggio scritt’a canzone’: “è una frase del grande maestro che mi ha colpito molto perché credo esprima a pieno l’atto creativo. Non c’è niente da capire: fare l’artista è una condanna meravigliosa”. Poi sono arrivati i Radiohead, che con l’album ‘Ok Computer’ hanno rivoluzionato l’industria musicale tutta, e anche il secondo album di Parente ‘Testa dì cuore’: “ho apprezzato la loro dimensione più di artigiani che artisti. Con l’uscita del secondo album ho iniziato a capire un po’ come funzionano alcuni meccanismi del mercato e delle relazioni, rendendomi conto che quel che facevo non apparteneva solo a me ma a quanti lo ascoltavano”. Con il terzo album arriva anche uno dei brani più riusciti di Parente ‘Solo io e la mia rivoluzione’, anche se la rivoluzione, spiega, non è da intendersi in senso letterale: “una canzone non può cambiare il mondo. L’unico atto rivoluzionario che possa fare un cantante è quello di restare coerente con se stesso. La società ci dà delle responsabilità che noi artisti non ci possiamo prendere. Possiamo suggerire, dare consigli, ma non mettere in pratica”. Questo non significa tuttavia privare la musica di uno scopo e di un valore sociale: “John Lennon sembra aver un po’ rovinato tutto. Non c’è bisogno di fare manifestazioni per fare battaglia culturale. La battaglia culturale la faccio con la mia credibilità, riuscendo a trasportare ad un livello superiore quello che ci circonda”. Lo scopo essenziale della musica resta quindi quello di aiutare a capire la realtà: “è impossibile per un artista non farsi influenzare dal contesto in cui vive. Anche nello scrivere una canzone d’amore si parla di qualcosa che si ha attorno”. Un’ulteriore tappa significativa nella carriera di Parente arriva nel 2010, anno in cui afferma “io sono una pubblicazione vivente”: “era una provocazione. Tutto è legato all’atto creativo che è imprendibile in un disco. Su un cd entra pochissimo dell’atmosfera che c’era quando si è scritta una canzone”. Infine una riflessione sul rapporto tra musica e poesia: “Non condivido l’espressione ‘fare una canzone così bella che è poesia’. Sono due cose diverse. La poesia ha come unico supporto la parola, la musica ha le note. De Andrè ha fatto degli esperimenti cercando di musicare delle poesie che non sono del tutto riusciti. Hanno più senso i reading di Jim Morrison, che rappresentano tentativi di performare la parola”. 
Al margine dell’incontro sono arrivate anche molte domande dai presenti, molti dei quali coinvolti direttamente nell’industria musicale.
Perché in Italia non c’è stato un gruppo che abbia avuto coraggio di sperimentare con Radiohead?
“Loro non si sono accontentati della fama e della ricchezza ma hanno continuato la loro ricerca musicale. In Italia non c’è rischio e non c’è coraggio, ci si fa un vanto dell’essere indipendenti ma quello che si produce, indipendenti o no, è buona o non buona ricerca. La musica indipendente da noi ha comunque fatto molto, e probabilmente la crisi ha toccato più cantanti mainstream che non quelli con lo zoccolo duro di fans come Marlene Kuntz ed Afterhours”.
Studio pianoforte e ho scoperto di esser capace di comporre melodie. Quando mi sento ispirata compongo anche poesie. C’è un metodo per unire le due cose?
“Il mio metodo cambia ogni volta. Quando compongo cerco comunque sempre di accompagnare gli accordi con una melodia, solitamente finto inglese, ma anche un semplice “lalalala”. Una volta che ho trovato un bel giro di note mi fermo e provo ad incastrarci delle parole. Non c’è una regola ben precisa, devi fidarti molto del tuo lato emotivo”.
Quanto è importante la rete di relazioni che si crea prima di un disco?
“C’è una mancanza di selezione nel mondo musicale proprio per questo discorso. Chiunque abbia un profilo facebook e myspace con molti follower è già avvantaggiato quando va da un discografico: la rete di contatti costituisce uno dei criteri per cui un disco possa essere prodotto. Io, però, non sono molto bravo in questo genere di cose”.
Come ti difendi da questo contorno che sembra soffocare la nostra dimensione spirituale?
“L’unico modo è quello di preservare un piccolo spazio per se stessi quando si è a contatto con la propria creatività, chiudersi in una stanza e ascoltare la propria ispirazione”.
Anna Verrillo
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