Ad Harvard con un cornetto portafortuna

A 21 anni la Laurea Triennale in Biotecnologie per la salute. A 23, quella in Biotecnologie Mediche. Entrambe con lode. Nel 2017 il dottorato in Cancer Biology all’Università di Zurigo. Nel luglio dello stesso anno l’aereo dalla Svizzera si è trasferito negli USA, ad Harvard per un’attività di post-doc. La Federico II “l’alma mater” di un ventottenne che risponde al nome di Davide Mangani e che, pur a tanti chilometri di distanza, fa parlare di sé nell’Università dove ha mosso i primi passi da studente. 
Davide, sei all’Università di Harvard. Di cosa ti occupi?
“Sono un postdoctoral research fellow al Brigham and Women’s hospital e Harvard medical School. Al momento, la mia attività di ricerca consiste nel cercare di comprendere i meccanismi molecolari e cellulari che coinvolgono il sistema immunitario durante lo sviluppo di patologie infiammatorie, autoimmuni e tumorali, allo scopo di identificare nuovi approcci terapeutici”.
Come ci sei arrivato?
“Sono sempre stato profondamente affascinato dal ruolo che il sistema immunitario svolge durante l’insorgenza e lo sviluppo di praticamente ogni patologia umana. Una volta concluso il mio dottorato ho iniziato a cercare un posto dove poter studiare questi meccanismi e, dopo alcuni colloqui, mi è stata offerta questa posizione lavorativa all’Evergrande Center for Immunologic Diseases, affiliato con l’Harvard medical School”.
Da quanto tempo sei lì e quanto dovrai restarci?
“Ho iniziato nel luglio 2017. Al momento non saprei dire con precisione quanto resterò qui. Di sicuro altri 2-3 anni, poi si vedrà”.
Caratteristica dello studio e del lavoro negli USA?
“Di sicuro qui non si pongono limiti e cercano sempre di tirare fuori il massimo dalle cose che fanno. Nonostante la ricerca europea abbia fatto dei passi da gigante negli ultimi anni, il livello della ricerca qui negli States è ancora superiore, per un mix di maggiore disponibilità economica e anche più apertura mentale. Diversi laboratori collaborano molto più facilmente, generando un fondamentale circolo di aiuto reciproco e scambio di idee”.
Com’è strutturata una giornata di lavoro lì?
“Si lavora tanto. Spesso, se non sempre, anche nel week end, ma questa è una particolarità del lavoro in sé piuttosto che qualcosa legato al luogo in cui si fa ricerca. Per quanto possibile, proviamo a ottimizzare la nostra attività lavorativa e a ritagliarci anche uno spazio di vita sociale al di fuori del laboratorio”. 
Con quante persone lavori? 
“Nel mio laboratorio siamo in sette, ma siamo molto legati a un laboratorio dove ci sono un’altra ventina di persone”. 
Hai trovato qualche “Maestro”?
“Al momento cerco di crescere prendendo il meglio da tutti gli altri ricercatori che incontro, quindi posso dire di avere tanti Maestri”.
Oltre al laboratorio, il tuo impegno quali altre attività prevede?
“Due principali. La prima, per la quale ‘soffro’ perché non riesco a dedicarle mai abbastanza tempo, è lo studio e l’aggiornamento su ciò che accade nel mondo della ricerca, perché nel nostro lavoro non si smette mai di studiare e di imparare. La seconda è la scrittura di grant e lo sviluppo di nuove idee per chiedere fondi di ricerca e avere la disponibilità economica per poter avanzare ulteriormente nel nostro lavoro”.
Somiglianze rispetto all’Italia?
“Direi la burocrazia che, anche se per motivi diversi, non funziona tantissimo anche qui”. 
Differenze?
“Direi quasi su tutto, nel bene e nel male”.
Cosa ti porti della formazione alla Federico II?
“In primis gli anni speciali di crescita umana e culturale. Il mio Corso di Laurea, guidato da professori speciali come Stefano Bonatti, Nicola Zambrano e Gerolama Condorelli, è stato fondamentale nel mio percorso. Porterò per sempre quegli insegnamenti con me”.
Passione, perseveranza
ed etica del lavoro
A proposito del prof Zambrano: all’ultimo Open Day della Scuola di Medicina, ha raccontato la tua esperienza da biotecnologo federiciano alle future matricole. Che effetto fa essere citato?
“È un grande onore per me. Ho sempre pensato di non avere nulla in più degli altri. Credo che tutto ciò che ho costruito fino ad oggi sia il frutto non di un dono di natura, ma di una grande passione, motivazione, perseveranza ed etica del lavoro. Vorrei che tutti gli studenti capissero che quelle sono le caratteristiche fondamentali per crescere come scienziati. Spero un giorno di  tornare in quelle aule e riportare di persona la mia esperienza alle future leve”.
Sei stato uno studente girovago. Le tue esperienze all’estero prima di quella attuale? 
“Durante l’Università sono stato tre estati consecutive alla Temple University in Philadelphia nei laboratori del prof. Antonio Giordano. Poi ho svolto il mio dottorato all’Università di Zurigo e infine adesso mi ritrovo qui a Boston. Sono sicuramente cresciuto a livello scientifico, ma se devo essere sincero la vera crescita è stata a livello umano. Vivere lontano da casa, da solo, cucinare, lavare, organizzare le spese per rientrare nel proprio budget mensile, conoscere culture completamente diverse dalla propria, sono tutte esperienze che ti cambiano profondamente e che ti fanno vedere le cose in modo completamente diverso”.
Qualche abitudine americana che è entrata nella tua quotidianità?
“Sincero?”.

“Nessuna”.
Qualche abitudine napoletana che hai portato con te?
“Toccare il mio cornetto portafortuna ogni volta lo ritengo necessario”.
Obiettivi per il futuro?
“Al momento sono completamente dedicato alle ricerche che sto compiendo, cercando di non preoccuparmi troppo del futuro. Molte volte si pensa che essere qui sia ‘facile’, ma lasciare tutto e vivere così lontano da casa e dedicarsi completamente al lavoro comporta molti sacrifici che non sarei riuscito ad affrontare senza la passione per il mio lavoro e il sostegno dei miei cari, con menzione speciale a mia madre Giovanna. Spero un giorno di poter avere il mio laboratorio e portare avanti le mie ricerche e le mie idee”.
Ciro Baldini
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