Il corpo è linguaggio, strumento, arte. Fino al 10 aprile si terrà presso Palazzo Du Mesnil un’iniziativa per toccare con mano la magia del teatro-danza balinese con maschere. “Fornire un assaggio dai fondamenti teorici alla pratica di un’attività rituale, tra tradizione e modernità, di cui sui libri si può leggere
molto, ma non si ha esperienza concreta”, l’obiettivo cardine del Laboratorio, come si evince dalle parole della docente coordinatrice Antonia Soriente. Le lezioni (4 in tutto) sono gestite da Carmencita Palermo, esperta in danza balinese Topeng, che ha appreso la tecnica dai maestri nei villaggi di Bali, dove ha vissuto per più di 10 anni. Attualmente è a L’Orientale per condurre ricerche sulle donne balinesi nel teatro e nella letteratura contemporanea, ma ha alle spalle una lunga carriera di insegnamento e spettacoli in giro per Europa, Australia, Indonesia e Brasile. “Questo progetto – attivato per il secondo
anno consecutivo – è nato dal mio lavoro. Ho cominciato circa 25 anni fa ad approfondire la storia balinese, quando facevo ricerche per la mia tesi in Discipline delle Arti, delle Musiche e dello Spettacolo a Bologna”, racconta la prof.ssa Palermo. “Dopodiché sono andata a Bali e mi sono innamorata sempre di più della maschera”. La danza teatro del Topeng, oggi uno dei simboli più forti dell’identità balinese, “racconta storie del XV-XVI secolo, cronache leggendarie di re mitici, che spesso chiamano in causa la conquista dell’antico impero Majapahit, a est Giava”. Non sappiamo, però, quanto antica sia. Quest’arte può assumere funzioni diverse. In primis, “esiste il Topeng cerimoniale, spesso danzato da un solo attore, che diviene parte dell’offerta all’interno del tempio”. Non bisogna dimenticare che la popolazione di Bali, diversamente dal resto dell’Indonesia a maggioranza islamica, sia di fede induista. Al di là della funzione spirituale, “gli attori-danzatori, oltre che esperti in religioni e filosofie, sono grandi intrattenitori e possono fare di questa danza un mezzo di promozione socio-culturale o uno strumento politico”. Sin dal primo incontro, il 20 marzo, dopo un’introduzione sul carattere simbolico e ancestrale della maschera-strumento impersonata dall’attore, gli studenti hanno sperimentato un lavoro pratico, “essenziale per rendere il gruppo più affiatato. Abbiamo lavorato da subito sulle camminate dei personaggi principali, quelli di corte, e poi sulla maschera comica, con esercizi di tipo teatrale o para-teatrale e improvvisazioni. Si parla nel fare”. Notevole l’entusiasmo con cui hanno aderito i partecipanti, ben 38. “Abbiamo addirittura qualcuno che
è venuto da Pisa, innamoratissimo della danza balinese. Ho avuto quasi 200 richieste e purtroppo ho dovuto rifiutarne tante. Si può anche fare, ma ci vogliono i mezzi adeguati, spazi meno limitati, possibilmente con un pavimento in legno, perché lavoriamo a piedi nudi”. In verità, il Laboratorio non è affatto separato da quello che si studia in aula, “anzi è parte integrante del programma, è solo un altro esempio. Spiegando in indonesiano i ragazzi hanno già imparato i numeri – non tutti i partecipanti lo studiano – e a seguire le mie indicazioni muovendosi nello spazio. Insegnare attraverso il corpo è dimenticare che siamo solo testa”. Il corpo, però, deve trasformarsi per riuscire a comunicare attraverso diversi codici, non solo con la teoria. “Si ripetono i movimenti all’infinito fino a verbalizzarli e comprenderli. È esattamente come imparare una lingua, perché io insegno per imitazione, non per ragionamento. Invece di imparare l’alfabeto, noi impariamo le frasi, e dopo averle assorbite scopriamo le lettere”. Il Topeng balinese, gli studenti “forse lo dimenticheranno, ma la curiosità verso il lontano, la proiezione di se stesso nell’altro, questo non credo. Perché il diverso ha sempre una ricchezza dentro, uguale alla nostra, e vale la pena scoprirla”. Gli studenti de L’Orientale sono già convertiti in questa missione multiculturale, “poiché quelli che vengono qui dentro hanno già qualcosa di atipico. Quest’Università ci fa sentire l’uno parte dell’altro e ci dà la possibilità di capire che l’altro non è differente dal sé”. Seminare negli allievi il germe della passione e ispirarli a un lavoro mente-corpo sono le soddisfazioni più grandi. “Mi piace vedere gli studenti illuminati,
quando capiscono che non insegno nozioni, piuttosto voglio spronarli a fare qualcosa che sia importante per loro. Napoli e L’Orientale mi danno la possibilità di stare col mio spirito mediterraneo. Qui non devo sprecare energie per adeguarmi, ma essere”.
molto, ma non si ha esperienza concreta”, l’obiettivo cardine del Laboratorio, come si evince dalle parole della docente coordinatrice Antonia Soriente. Le lezioni (4 in tutto) sono gestite da Carmencita Palermo, esperta in danza balinese Topeng, che ha appreso la tecnica dai maestri nei villaggi di Bali, dove ha vissuto per più di 10 anni. Attualmente è a L’Orientale per condurre ricerche sulle donne balinesi nel teatro e nella letteratura contemporanea, ma ha alle spalle una lunga carriera di insegnamento e spettacoli in giro per Europa, Australia, Indonesia e Brasile. “Questo progetto – attivato per il secondo
anno consecutivo – è nato dal mio lavoro. Ho cominciato circa 25 anni fa ad approfondire la storia balinese, quando facevo ricerche per la mia tesi in Discipline delle Arti, delle Musiche e dello Spettacolo a Bologna”, racconta la prof.ssa Palermo. “Dopodiché sono andata a Bali e mi sono innamorata sempre di più della maschera”. La danza teatro del Topeng, oggi uno dei simboli più forti dell’identità balinese, “racconta storie del XV-XVI secolo, cronache leggendarie di re mitici, che spesso chiamano in causa la conquista dell’antico impero Majapahit, a est Giava”. Non sappiamo, però, quanto antica sia. Quest’arte può assumere funzioni diverse. In primis, “esiste il Topeng cerimoniale, spesso danzato da un solo attore, che diviene parte dell’offerta all’interno del tempio”. Non bisogna dimenticare che la popolazione di Bali, diversamente dal resto dell’Indonesia a maggioranza islamica, sia di fede induista. Al di là della funzione spirituale, “gli attori-danzatori, oltre che esperti in religioni e filosofie, sono grandi intrattenitori e possono fare di questa danza un mezzo di promozione socio-culturale o uno strumento politico”. Sin dal primo incontro, il 20 marzo, dopo un’introduzione sul carattere simbolico e ancestrale della maschera-strumento impersonata dall’attore, gli studenti hanno sperimentato un lavoro pratico, “essenziale per rendere il gruppo più affiatato. Abbiamo lavorato da subito sulle camminate dei personaggi principali, quelli di corte, e poi sulla maschera comica, con esercizi di tipo teatrale o para-teatrale e improvvisazioni. Si parla nel fare”. Notevole l’entusiasmo con cui hanno aderito i partecipanti, ben 38. “Abbiamo addirittura qualcuno che
è venuto da Pisa, innamoratissimo della danza balinese. Ho avuto quasi 200 richieste e purtroppo ho dovuto rifiutarne tante. Si può anche fare, ma ci vogliono i mezzi adeguati, spazi meno limitati, possibilmente con un pavimento in legno, perché lavoriamo a piedi nudi”. In verità, il Laboratorio non è affatto separato da quello che si studia in aula, “anzi è parte integrante del programma, è solo un altro esempio. Spiegando in indonesiano i ragazzi hanno già imparato i numeri – non tutti i partecipanti lo studiano – e a seguire le mie indicazioni muovendosi nello spazio. Insegnare attraverso il corpo è dimenticare che siamo solo testa”. Il corpo, però, deve trasformarsi per riuscire a comunicare attraverso diversi codici, non solo con la teoria. “Si ripetono i movimenti all’infinito fino a verbalizzarli e comprenderli. È esattamente come imparare una lingua, perché io insegno per imitazione, non per ragionamento. Invece di imparare l’alfabeto, noi impariamo le frasi, e dopo averle assorbite scopriamo le lettere”. Il Topeng balinese, gli studenti “forse lo dimenticheranno, ma la curiosità verso il lontano, la proiezione di se stesso nell’altro, questo non credo. Perché il diverso ha sempre una ricchezza dentro, uguale alla nostra, e vale la pena scoprirla”. Gli studenti de L’Orientale sono già convertiti in questa missione multiculturale, “poiché quelli che vengono qui dentro hanno già qualcosa di atipico. Quest’Università ci fa sentire l’uno parte dell’altro e ci dà la possibilità di capire che l’altro non è differente dal sé”. Seminare negli allievi il germe della passione e ispirarli a un lavoro mente-corpo sono le soddisfazioni più grandi. “Mi piace vedere gli studenti illuminati,
quando capiscono che non insegno nozioni, piuttosto voglio spronarli a fare qualcosa che sia importante per loro. Napoli e L’Orientale mi danno la possibilità di stare col mio spirito mediterraneo. Qui non devo sprecare energie per adeguarmi, ma essere”.