“I giovani e la crisi economica. Capire per ricostruire la speranza”, un titolo quanto mai esemplificativo quello scelto per il suo nuovo libro dal prof. Francesco Pastore, docente di Econometria Applicata presso il Dipartimento di Economia della Seconda Università. A due anni di distanza da “Fuori dal Tunnel”, il docente torna ad occuparsi di università e lavoro a 360 gradi, passando per fuoricorsismo e politiche europee: “il contenuto di questo libro si ricollega a quello del precedente applicandone i concetti alla situazione economica attuale. Ho cercato di mettere insieme articoli da riviste importanti come Lavoce.it o linkiesta.it, traducendo però il tutto con un linguaggio più divulgativo perché fosse accessibile ad un pubblico più ampio”. Il libro, infatti, non è rivolto solo ai giovani, che sono protagonisti degli scritti, “ma anche alle loro famiglie, alle persone che li circondano, perché la situazione economica attuale è qualcosa che riguarda tutti”.
Disoccupazione giovanile
Una delle manifestazioni più inquietanti della crisi è l’altissimo tasso della disoccupazione giovanile, salita a livelli vertiginosi negli ultimi anni: “il problema è che le imprese vanno molto più veloce di quanto andassero un tempo. Hanno bisogno di cambiare personale in base alle loro programmazioni e sempre più spesso scelgono di de-localizzare la produzione, con la conseguenza che non avranno più bisogno di manodopera a tempo indeterminato”. Le ragioni di una situazione così drammatica non vanno comunque imputate unicamente al mondo delle imprese: “da un lato c’è questo mondo lavorativo in continuo movimento, dall’altro il mondo dell’università e della formazione fermo su stesso”, spiega il professore. Non essendo controllabile la domanda di capitale umano, l’attenzione dell’analisi si deve spostare sull’offerta dei candidati, quindi sul sistema universitario: “Sforniamo laureati che potrebbero sostenere un phd ad HARVARD senza sfigurare in un contesto internazionale, eppure le aziende si lamentano della loro incapacità anche nel risolvere problemi banali. Prendiamo la Giurisprudenza: i ragazzi studiano tutte le leggi, ma non sono in grado di fare una citazione quando lo si chiede”. Pastore fa mea culpa: “per primi noi docenti dovremmo imparare a spiegare in maniera meno astratta”. Ma cosa può fare l’università per rispondere in maniera concreta ad una crisi che avanza inesorabilmente? “Dobbiamo cercare di favorire l’esperienza dei ragazzi sin dagli anni della formazione. L’università deve aprirsi alle aziende favorendo stage, tirocini ed apprendistati”. Perché ciò accada, c’è bisogno di una forte volontà da entrambe le parti: “anche le aziende devono essere più disponibili ed aperte verso il mondo universitario. Purtroppo capita che spesso imprenditori con bassi livelli di istruzione avvertano un senso di inferiorità nei confronti di giovani e preparati laureati e quindi non li assumano”. Un problema a cui sembra invece del tutto immune un altro Paese europeo, la Germania, da cui l’Italia dovrebbe trarre esempio: “in questo Paese il 60-70% dei giovani è pienamente inserito nel mondo del lavoro perché sin dall’università iniziano delle pratiche di apprendistato, che diventa il fulcro del sistema scolastico”.
Overeducation e lauree
poco spendibili
poco spendibili
L’attuazione di un sistema come quello tedesco in Italia consentirebbe anche di evitare un ulteriore fenomeno in crescita, quello dell’overeducation. I giovani sono, infatti, costretti dalla mancanza di domanda per la loro qualifica ad accettare posti di lavoro pensati per candidati dotati di qualifiche inferiori: “è un paradosso perché fenomeni di questo tipo accadono solitamente in Paesi in cui c’è un numero troppo alto di laureati e un mercato non pronto a recepire tanti lavoratori troppo qualificati. In Italia la percentuale di laureati è molto più bassa”. Nel nostro Paese, invece, il problema è un altro: “Le aziende richiedono conoscenze pratiche che i ragazzi non hanno, per cui, pur possedendo ottime conoscenze e qualifiche, spesso finiscono per accontentarsi di posti di minore prestigio”. Non è da sottovalutare anche la presenza di lauree poco spendibili sul mercato: Lingue (13.2%), Scienze Politiche (14%) e Letteratura (17.9%) sono le più colpite in fatto di overeducation.
Abbandoni e fuoricorso
Abbandoni e fuoricorso
Un capitolo di particolare interesse è riservato ad un’altra piaga dell’università italiana, vale a dire quella degli abbandoni e del fuoricorsismo: l’Italia è prima fra i paesi OCSE nella graduatoria degli abbandoni. Solo il 55% degli iscritti si laurea. I motivi, a detta del professor Pastore, vanno ricercati nel lontano 1969, dall’anno in cui la legge prevede che si possa accedere all’università con qualsiasi diploma: “ciò vuol dire garantire diritto allo studio a tutti, ma nello stesso tempo sottovalutare le difficoltà che potranno incontrare i ragazzi provenienti dagli istituti tecnici. L’università non è pensata purtroppo per chi ha un background più debole”. Se a questa difficoltà si aggiunge anche una scarsa fiducia nelle possibilità lavorative future, il ragazzo scoraggiato finirà fuoricorso o, addirittura, abbandonerà gli studi: “i programmi universitari sono sempre pensati per i migliori, per le élite. O si scioglie questa contraddizione riguardando i programmi, oppure si crea un tipo di formazione intermedia leggermente superiore a quella del liceo ma non ancora al livello di quella universitaria”. Un po’ come doveva inizialmente essere il 3+2, con 3 anni di formazione base per tutti e due di specializzazione: “ma le cose non sono andate così, il biennio finisce per essere una ripetizione di quanto già appreso nei tre anni precedenti”. Un’alternativa potrebbe essere quella di dar vita a delle università professionalizzanti, come accade in Germania, di indirizzo prettamente tecnico: “in Italia un esempio di questo tipo è dato dal Corso in Scienze Infermieristiche. Un percorso gettonatissimo perché, pur non essendo qualificante come un Corso in Medicina, immette direttamente nel mondo del lavoro. Perché non rispondere ad una richiesta di web designer, tecnici informatici con percorsi di questo tipo?”.
Inglese ed esperienza
Una qualità essenziale per non perdere di vista gli obiettivi futuri è la conoscenza dell’inglese: “è una vera e propria piaga del nostro sistema. In parte è attribuibile alla scuola, poiché ci sono poche possibilità di stage e corsi all’estero che, seppure molto costose, dovrebbero aumentare. In parte, la scarsa conoscenza dell’inglese è anche imputabile alla nostra mentalità italiana. Non c’è la volontà d’intraprendere un’esperienza all’estero per conto proprio, o, molto banalmente, i nostri programmi e film sono tutti doppiati in italiano”. Ma l’inglese da solo non basta. Non va dimenticato che chi ha un’alta istruzione, come un diploma superiore, l’università o un titolo post-lauream, se non ha esperienza lavorativa, ha pur sempre un basso capitale umano, per cui “occorre restare umili e coerenti. Coerenza significa evitare di cambiare strada anche se a breve non si vedono i risultati, a meno che non ci sia un motivo serio; umiltà significa tornare sempre con la mente alle attività formative, perché il lavoro non è isolato da esse”.
Anna Verrillo
Anna Verrillo