Napoli, “un Giano bifronte” tra declino e rinascita

Da pochi mesi è negli scaffali delle librerie italiane il nuovo libro del prof. Paolo Frascani, docente emerito a L’Orientale dove insegna Storia e storiografia delle società europee in età contemporanea, dal titolo “Napoli. Viaggio nella città reale”, edito da Laterza. Una grande sfida, intellettuale e di ricerca, quella di cui si è caricato lo storico: scrivere di Napoli cominciando il proprio itinerario da un principio di realtà. “Il richiamo alla realtà della sua condizione urbana non deve però trarre in inganno: non intendo scoprire o svelare alcunché; piuttosto, sono spinto dal desiderio di riflettere sul presente e sul futuro della città, soffermandomi sul suo passato”, si legge in premessa. Un’analisi senza orpelli che affonda le radici nel mito di uno splendore d’altri tempi, l’antica
capitale del Mezzogiorno, alla luce delle transizioni verso il nuovo compiute dalla metropoli moderna per comprendere cosa è accaduto nell’ultimo ventennio. Il suo contributo interpretativo è volto a ricomporre da un lato un vuoto di conoscenze e testimonianze di studio sul piano dell’evoluzione sociale ed economica, dall’altro lo iato di una frattura cronica (e insanabile?), avvalendosi di osservazioni, immagini e cifre documentate. Napoli, “un Giano bifronte”, con le sue storie di oggi e di ieri è sempre al bivio tra declino e rinascita, fragilità e speranza, reticenze e polemica, mutando in continua trasformazione la pelle di una realtà a due facce, “testimone dell’ampliarsi della sua distanza dal resto del Paese”. Il prof. Frascani racconta in prima persona le tappe imprescindibili – potere e società, il mondo della produzione e il circuito industriale, il tessuto sociale e le start-up in crescita, un’economia risorta e la valorizzazione dei beni culturali, solo alcune di queste – di un viaggio in sei capitoli nel ventre partenopeo, alla larga da luoghi comuni e querelle mediatica, con l’obiettivo di fornire una chiave di lettura dei processi in corso nella nostra contemporaneità. Com’è stata la gestazione di
questo libro? “Un lavoro lungo, durato tre anni, calcolando sia il tempo delle idee che la fase di realizzazione concreta e le varie stesure. Avevo già allora
un prospetto chiaro dell’impianto strutturale, ma la scelta di suddivisione dei capitoli doveva essere accompagnata da riflessioni meditate attraverso le letture. Dico letture ‘scientifiche’, perché Napoli è stata ed è una città d’ispirazione per molti autori. Mi riferisco, però, a studi fatti da economisti, sociologi, antropologi, non certo ai letterati, anche se devo confessare che ho preso il cinema in seria considerazione ”.Scrive di guardare alla realtà come “un testimone informato sui fatti”, e non con l’approccio sistematico dello studioso. In che senso? “In due sensi, entrambi empirici. Il primo: facendo l’opinionista per Repubblica Napoli, mi informo sui fatti come tutti quelli che gravitano in questo circuito. Per questo ho dato molto spazio ai cronisti, soprattutto nella sezione economica. Il secondo invece, deriva dalla conseguenza di avere la mia età, essere nato in un certo ambiente sociale, il ceto medio, ed essere sempre rimasto qui, da molti anni come protagonista della classe dirigente universitaria. La mia idea, appunto, era: offrire
una testimonianza della città legando presente e passato con uno sguardo di sintesi globale. Questa era la mia grande scommessa,  credo non naufragata, spesso però preda facile di aspre critiche. È sempre difficile dire qualcosa e lasciar intendere di non aver escluso
il resto”. Cosa intende per città reale? E qual è la Napoli ‘irreale’? “Il libro è uscito nel momento in cui il tema della realtà era al vertice del dibattito pubblico. Inizialmente, avevo scelto un titolo diverso. Poi ho ripensato a un altro aspetto che sta venendo fuori di questi tempi, quello di centinaia di migliaia di visitatori che stanno scoprendo e ri-scoprendo la nostra città. Ecco, si èfatta viva in me una piccola ambizione: io non mostro la facciata, la bella
Napoli, legata al turismo, ma propongo un tour ‘reale’. Quest’aggettivo mi è servito anche per tracciare una differenza metodologica con altre rappresentazioni che non si pongono il problema del criterio analitico”. Una Napoli con due volti. Quali sono le origini di questo dualismo? “La duplice conformazione sociale è una questione storica. Di recente, però, ha subito delle trasformazioni. Una netta distinzione tra la Napoli borghese e quella popolare ormai non esiste più. La fusione tra le due ha generato zone grigie: la metà borghese c’è ancora, ma l’altra sta prendendo il sopravvento nei costumi, nei modi di parlare, nelle mode e nelle abitudini. A scuola – eravamo già abituati – non tutti ci vanno, ma ci meravigliamo che oggi da qualche parte sia ancora così. Paradossalmente, inoltre, sta avanzando a discapito della piccola borghesia una Napoli senza cultura ma con i soldi, che parla un napoletano stretto e incomprensibile. Ai miei tempi si faceva uno sforzo per tentare di parlare in italiano, perché ciò indicava una differenza di status. Oggi nessuno ci fa più caso”. Cosa intende quando parla nel libro di un “passato che non passa”? “Lì si tratta di una polemica con la visione culturale della città. Bisogna valorizzarne il culto, per noi, per i nostri figli, per chi sta nei quartieri e non conosce le chiese di Napoli. Quando parlo della traccia del passato,
vorrei perciò che cominciassimo ad aprirci alla cultura moderna che governa il mondo, al concetto del saper fare economico, della produttività, l’essere imprenditori di sestessi. Ho messo in evidenza a più riprese il discorso dei beni culturali da difendere e tutelare. Se si va in luoghi come Berlino o Londra, i cittadini hanno ricostruito e valorizzato le città. Su di noi, invece, grava un passato che ancora ci condiziona”. Quali sono i punti su cui insistere di più? “Ogni città ha bisogno di un classe politica in grado di elaborare strategie. È vero per il Paese, ma è decisivo soprattutto per Napoli. Strategie
per sapere dove stiamo andando. Bisogna elaborare dei programmi per migliorare la città, fare rete, creare proposte. Certo, gli obiettivi dei progetti possono essere diversi, ma la mia impressione è che manchi proprio un’idea. Io non ho pensato di offrire conclusioni in merito, sono solo un umile osservatore. Ho lavorato, però, per sottolineare alcuni aspetti. Ho lanciato un’utopia. La nostra sarebbe una città ricchissima di futuro, se trovasse il modo
 di coinvolgere coloro che sono andati via e che costituiscono una risorsa enorme in cui investire”. Come affronta in aula la questione della fuga di cervelli?
“Ai miei studenti dico che lavorare è necessario, ma bisogna prima capire in che direzione muoversi. Chi conosce la situazione attuale può orientarsi con gli elementi socio- culturali, soprattutto nell’ambito delle scienze umane. Perciò, a L’Orientale abbiamo fondato il Ce- SEC, un Centro di Studi sull’Europa Contemporanea. Molti ragazzi non conoscono la storia dell’integrazione, l’origine delle istituzioni e delle culture europee. Invece, bisogna familiarizzare con questo mondo, non solo sviluppando le proprie competenze linguistiche o partecipandoal Programma Erasmus. Nel mese di maggio, organizzeremo pertanto un Laboratorio di Alfabetizzazione europea per gli iscritti ai Corsi di Laurea Triennale. Dopodiché, ci saranno degli incontri sotto il titolo de ‘I saperi de l’Europa’ per gli studenti della Magistrale”. Quali sono i segnali che si intravedono all’orizzonte?
“Dal punto di vista politico, non sono per niente ottimistici. Non si tratta di giudizi personali. Ho riflettuto sul passato con il metodo storico, perché non si può prescindere da certi personaggi o eventi legati alla nostra città per parlare del presente. A mio avviso, i lati positivi sono davvero pochi: la metamorfosi costante, il fatto che le città non stanno ferme. E infine, la grande forza dei giovani. In parte la stiamo perdendo, ma quel poco che si trattiene dentro e fuori la città dimostra una spiccata vivacità intellettuale – una ricchezza di interessi che ultimamente si può ravvisare nel cinema, nel teatro o nella musica. Certo, questo vitalismo non fa sistema, ma potrebbe,  se un cervello politico coordinasse le attività e le incanalasse in una logica propulsiva”.
Sabrina Sabatino
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