“Non uscite”: l’appello del prof. Edgardo Filippone contagiato da un collega ad un convegno

Lo scorso 2 marzo il prof. Edgardo Filippone, ordinario di Genetica Agraria presso il Dipartimento di Agraria della Federico II, ha scoperto di essere positivo al Coronavirus (COVID-19), il virus che da settimane ha paralizzato letteralmente il nostro Paese. Il suo è stato uno dei primi casi accertati in Campania. Per fortuna non è stato necessario alcun ricovero ospedaliero, il docente è attualmente in condizioni di ‘riposo’ presso la sua abitazione, dopo aver superato una prima fase lievemente critica. Raggiunto telefonicamente, la prima domanda doverosa è: Professore come sta? “Mi sto riprendendo, sono al quarto giorno senza febbre e si sta riducendo quel forte senso di astenia, quella stanchezza che mi ha accompagnato nelle scorse settimane. Anche la tosse si è notevolmente ridotta. Diciamo che il Coronavirus è stato per me una fortissima influenza, la peggiore che io ricordi”. Aver contratto il virus è purtroppo ‘capitato’. Come l’ha scoperto? “Sono stato ad un convegno a Reggio Calabria, dove ho incontrato un collega che proviene dalla Lombardia, con il quale ho scambiato baci e abbracci a testimonianza dell’amicizia che ci unisce. Ho avuto un contatto diretto forte, eravamo a metà febbraio, il 18 per essere precisi”. Dopo 14 giorni: “Il 1° marzo ho saputo da un collega comune che era stato ricoverato in terapia intensiva per aver contratto il coronavirus. Ho subito allertato mia moglie che è un medico e lavora presso l’UPI della Federico II. Ho fatto il tampone, in quei giorni ero stato attivo sia nella ricerca, sia nell’incontrare gli studenti. Mi sentivo influenzato, stanco, ma nessuna forte tosse”. Lunedì 2 marzo arriva l’esito: positivo al virus. Come si reagisce ad una diagnosi che oggi spaventa tutti? “Dal punto di vista fisico, dopo aver saputo di essere positivo, è subentrato un leggero peggioramento delle condizioni di salute. La temperatura è aumentata e, non essendoci alcun farmaco di riferimento, mi sono curato solo con la tachipirina. Sono riuscito fortunatamente a bloccare la febbre. È aumentato, però, il senso di astenia, spossatezza e nausea. Debbo dire che non sono stato per niente bene, solo di recente la temperatura si è stabilizzata. Purtroppo, in contemporanea, ho appreso che il collega che mi ha contagiato è ancora in terapia intensiva”. Da un punto di vista strettamente personale: “La prima reazione è stata quella di capire se avessi contagiato anche mia moglie. Fortunatamente è risultata negativa al tampone. Poi, ho dovuto ricordare con chi avessi avuto contatti nell’ultimo periodo. Fino al primo marzo, la mia vita è stata un susseguirsi di avvenimenti. Dal 18 ad inizio mese, di incontri ne avevo avuti abbastanza. Ragion per cui, ho subito allertato il Direttore del Dipartimento di Agraria, il prof. Matteo Lorito, affinché inoltrasse le dovute segnalazioni all’ASL di competenza, quella di Portici”. “Ho contagiato un tesista e una collega” E cosa ha scoperto poi? “Di aver contagiato un mio studente tesista, che per fortuna è in isolamento a casa senza sintomi, e una mia collega. Forse in quel frangente, si è innescata un po’ di paura. Ha giocato a mio favore l’aver avuto una moglie medico e che la mia brutta ‘influenza’ non si è mai trasformata in polmonite. I medici mi hanno tranquillizzato e questa rete che si è creata attorno mi ha fatto sentire protetto. Ogni giorno che passa, valutiamo il mio stato di salute”. Quando si potrà dire conclusa la quarantena? “Sono trascorsi quasi 15 giorni – l’intervista è l’11 marzo – Devo sottopormi ad un altro tampone che mi dirà realmente come sto e se ne sono uscito fuori definitivamente. La quarantena quindi continua”. Come si sopravvive ai tempi del Coronavirus, con Atenei chiusi, didattica sospesa, futuro incerto? “Fino a qualche giorno fa avevo problemi di concentrazione e la forte nausea mi impediva di svolgere tutto. Ho cercato di rispondere alle mail, di leggere i vari report delle riviste con cui collaboro, continuando il mio lavoro ad un ritmo ridotto. Da poco sto implementando le lezioni del II semestre, grazie all’uso della piattaforma digitale, anche per non perdere il contatto con i ragazzi. Credo, però, che per la didattica frontale se ne parli dopo le festività pasquali o almeno lo spero”. L’hastag ‘#iorestoacasa’ spopola sui social. Il Governo impone di uscire solo se necessario. L’Italia si tinge di rosso. Cosa ne pensa? “Sono dell’avviso che restare a casa sia l’unica arma che abbiamo per difenderci, per non diffondere il virus. Stare fermi due settimane è una scelta saggia, uno stop obbligatorio se non vogliamo pagarne le conseguenze dopo. I malati di coronavirus occupano tanti posti negli ospedali sottraendoli a pazienti affetti da altre patologie e necessità. Non possiamo permetterci di perderne altri, restiamo a casa”. Un’ultima domanda. Chi è stato colpito dal virus viene guardato con paura, terrore. Il contagiato è l’untore che nessuno vorrebbe mai incontrare. Come si è sentito in questa malaugurata veste? “Capisco la paura, il coronavirus è qualcosa che non si vede ad occhio nudo. Poi che si possa disseminare con uno starnuto è ancora più terrificante. Quindi, sono conscio della destabilizzazione che si crea attorno all’ammalato. In Dipartimento, vi era stata la sanificazione dei locali, prima che io risultassi positivo, ciò non ha impedito che si generassero trasmissioni. La paura è giustificata e per questo motivo la cosa migliore è restare chiusi in casa. Non uscite, solo così possiamo preservare la salute di tutti”. Buona guarigione prof!
Susy Lubrano
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