De Menna: l’IBM, l’esperienza americana e la “rivoluzione fallita del ’68”

“Sono alla Federico II da 45 anni. Mi sono laureato nel 1964 a Napoli. Poi ho lavorato a Milano alla Ibm. Nel 1967 di nuovo a Napoli con borsa di studio. Tra il 1975 ed il 1977 sono stato due anni negli Usa”, racconta il prof. Luciano De Menna, ordinario di Elettrotecnica presso la Facoltà di Ingegneria. Il ricordo della sua esperienza di studente: “eravamo molti di meno rispetto ad oggi. Solo allora cominciava il boom di Ingegneria. Aule sovraffollate, però. Ho frequentato per i primi due anni a Mezzocannone, ma mi sono laureato a Fuorigrotta”. Gli esami fondamentali: “Matematica: all’epoca il corso era sdoppiato. Sono entrato quando è morto Caccioppoli. Lo sostituirono Cafiero e Letta. Quest’ultimo, un normalista, cugino dei due Letta oggi in politica. Letta aveva entusiasmo, portava novità. Molto bello anche il corso di Chimica con Bonifacio”. Qualche incidente di percorso: “Ripetei l’esame di Disegno, perché rifiutai 26. Ebbi un problema con Elettrotecnica: non avevo capito che una certa cosa era in programma, mi trovai di fronte ad una domanda alla quale proprio non sapevo rispondere. Mi vergognai tantissimo e chiesi il permesso di andar via”.
La laurea e poi il lavoro all’Ibm: “da dove andai via perché volevo cambiare. Era un posto ambito, a Milano. Ben pagato per l’epoca: 250mila lire al mese. La borsa di studio che ottenni a Napoli era da 120mila lire al mese. Quando andai via, Ibm mandò uno psicologo per parlarmi. Alla Ibm avevo come compagno Luciano de Crescenzo, che girava in una cinquecento e vi aveva rimosso il sedile del passeggero, quello al fianco del guidatore. Era il 1967, quando lasciai Ibm e Milano. Avevo idee diverse: l’Università ribolliva, la contestazione, lì mi sentivo isolato nella bambagia. Poi anche vicende personali: mi ero sposato e separato. Alla Ibm lavorava con me pure Scipione Bobbio (studioso di fama internazionale, docente di Elettrotecnica ad Ingegneria, nonché assessore comunale, scomparso prematuramente nel 2000, n.d.r). 
Il ritorno all’università. “Sono diventato ordinario nel 1980, a 39 anni. Prima, però, sono stato due anni in America, al Mit (The Massachusetts Institute of Technology). Scoprii gli Usa, il paese del capitalismo. Inizialmente ero molto critico, poi ho iniziato ad apprezzarli. In Italia si svolgevano assemblee interminabili, lì già all’epoca c’erano cooperative progressiste per organizzare un sistema di vendita che oggi diremmo a chilometro zero”. 
Molti dei suoi studenti di allora sono oggi docenti universitari. “Rubinacci, Martone ed altri, qualcuno – Alighieri – è andato via, proprio al Mit”. Rimorsi? “Mi è capitato parecchie volte di non essere sicuro dei miei giudizi. Oppure di una battuta verso uno studente ad un esame. Lui tentennava, un collega, Scipione Bobbio, lo invitò: ‘legga, legga’. Lo studente continuava a esitare. Pare che io abbia detto – questo mi contestò il ragazzo che c’era rimasto malissimo –‘“ma forse non sa leggere’”. 
Il momento più toccante della vita da docente? “Una notte in Irpinia, dopo il sisma, Preside della Facoltà Gasparini. Partii con alcuni colleghi alla ricerca di eventuali sopravvissuti, da cercare con un particolare rilevatore. Ricordo l’ospedale di Sant’Angelo dei Lombardi – sei piani – crollato. Come sei carte sparpagliate su un tavolo. Un silenzio spettrale….” Poi “la grande rivoluzione fallita del 1968. Senza rimpianti e senza pentimenti, però: fu un momento straordinario e voi tutti siete figli anche di quei nostri sforzi, a volte ingenui, certo generosi”.
Il futuro dell’Università? “Sono preoccupatissimo per questo governo che non ha alcuna sensibilità verso un’Università che certo va migliorata, ma rischia di essere in realtà distrutta dalla mancanza di risorse”.
Fabrizio Geremicca
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