Enzimi modificati per neutralizzare i gas nervini

Iprite, dal nome della città belga di Ypres, dove fu impiegata per la prima volta su larga scala, nel corso della battaglia che si consumò tra aprile e maggio 1915. Poi Sarin, Soman,Tabun e, tra gli ultimi arrivati, il russo Novichok. Sono i famigerati gas nervini che uccidono o arrecano danni a chi vi entri in contatto. Se ne è tornato a parlare dopo che, ad inizio aprile, c’è stato un attacco chimico ad Idbil, nella Siria martoriata da sei anni di guerra. Ateneapoli ha intervistato un esperto in materia di gas nervini, che ha recentemente diretto un progetto per elaborare enzimi modificati e capaci di neutralizzare questi micidiali composti. Si tratta di Giuseppe Manco, napoletano, 55 anni, biochimico e primo ricercatore del Cnr. Cosa sono i gas nervini? “Sono sostanze che appartengono alla stessa famiglia di gran parte dei pesticidi. La differenza è che sono da dieci a cento volte più tossici e sono molto più volatili”. Con quale meccanismo agiscono sull’uomo? “Inattivano in maniera transitoria oppure irreversibile un importante enzima presente nel corpo umano, che si chiama acetilcolinesterasi. Quest’ultima smaltisce l’acetilcolina, un neuromediatore degli impulsi elettrici del sistema nervoso centrale. Quando i gas inattivano l’enzima acetilcolinesterasi, viene meno uno spazzino dell’acetilcolina e quest’ultima si accumula nell’organismo. Tale situazione innesca mal di testa, tremori, convulsioni, asfissia fino alla paralisi del sistema respiratorio ed alla morte”. Come sono diffuse nell’aria queste sostanze micidiali? “Non c’è un unico metodo. Proiettili, bombe d’aereo, testate missilistiche, dispersori, sono stati, storicamente, alcuni dei metodi di veicolazione dei gas”. Quali sono stati i più recenti casi di utilizzo dei gas nervini? “In Siria, prima dell’episodio di inizio aprile, il 21 agosto 2013 alcuni sobborghi di Damasco furono colpiti da missili che contenevano Sarin. Armi chimiche sono state utilizzate durante la guerra Iran-Iraq e poi contro i curdi da parte dell’Iraq. C’è stato anche un episodio clamoroso terroristico durante il quale gli attentatori fecero ricorso al gas Sarin. Accadde nella metropolitana di Tokyo nel 1995 e fu opera di alcuni membri di una setta religiosa, i quali trasportavano in sacchetti di plastica la sostanza in forma liquida. Li abbandonarono in varie stazioni della metro e li forarono affinché il gas si diffondesse nei sotterranei della metro. Morirono 12 persone e cinquemila restarono intossicate”. Oggi le armi chimiche sono bandite oppure ne è consentito l’utilizzo? “Sono vietati, in base alla Convenzione sulle armi chimiche che fu firmata a Parigi nel 1993, la produzione e l’utilizzo. Gli Stati firmatari, circa 200, si impegnano a non produrre più questo tipo di armi ed alla progressiva distruzione degli stock di sostanze chimiche ad uso bellico che detenevano. Il trattato prevede un sistema di verifiche da parte della Organizzazione dell’Aja per la Proibizione delle Armi Chimiche ed un termine ultimo per l’eliminazione delle riserve di gas nervini presenti, che è stato più volte posticipato ed ora è il 2023. Non tutti gli Stati, però, hanno firmato la convenzione di Parigi”. Come si distrugge un arsenale chimico? “Esistono metodi piuttosto rudimentali e relativamente poco costosi e sistemi più raffinati. Spesso si utilizza l’incenerimento, che peraltro incontra fortissime resistenze da parte delle popolazioni che vivono nei pressi degli inceneritori nei quali si compiono tali operazioni. Un altro approccio è il trattamento dei gas con ossidanti oppure sostanze alcaline come soda e varechina. Sono sistemi economici, ma poco rispettosi dell’ambiente. Per questo motivo adesso si cerca di ricorrere agli enzimi. In particolare, la fosfotriesterasi di Pseudomonas, che ha però l’inconveniente di non essere molto stabile. La ricerca va avanti nel mondo ed anche qui al Cnr”. Siete coinvolti in qualche progetto relativo alla bonifica ed allosmaltimento degli arsenali chimici? “Abbiamo da qualche tempo ultimato il progetto Biodefensor, che ha permesso di sviluppare metodologie di decontaminazione e detossificazione che evitino inquinamento ambientale e rischi per il personale addetto. Il metodo che abbiamo messo a punto si basa sull’uso di enzimi, più precisamente di mutanti specifici e superattivi ottenuti attraverso l’evoluzione molecolare in vitro capaci di rilevare con alta sensibilità e di degradare velocemente gas nervini quali Sarin, Soman e Tabun, presenti nell’acqua, nell’aria, su apparecchiature, persone e superfici di vario genere. Queste nuove tecnologie tra l’altro, a livello industriale possono apportare vantaggi anche in altri settori, come quello del controllo degli inquinanti e dei pesticidi in cibo, acqua e ambiente. Questi enzimi modificati sono efficaci come la fosfotriesterasi di Pseudomonas, ma più stabili di essa e per questo meno problematici da utilizzare”. Sistemi di rilevazione nei luoghi pubblici Esiste un commercio illegale di gas nervini? “Stiamo parlando di sostanze che appartengono alla stessa famiglia di alcuni pesticidi. È possibile che uno Stato acquisti i precursori di armi chimiche, simulando che serviranno per produrre pesticidi, e poi ne faccia un uso diverso, sebbene la Convenzione di Parigi preveda controlli anche su questi precursori”.
È ipotizzabile che un gruppo terroristico possa disporre di un arsenale chimico? “Sono sostanze non facili da maneggiare, ma il caso di Tokyo racconta che un gas come il Sarin può finire nelle mani di qualcuno che voglia realizzare un attentato”. Possibili contromisure? “Per ovvi motivi, le armi chimiche espletano il massimo effetto letale nei luoghi chiusi. Servirebbero, dunque, negli aeroporti, nei musei, nelle scuole, nei supermercati, negli ospedali ed in  luoghi con simili caratteristiche sistemi di rilevazione che possano entrare immediatamente in funzione, identificando la natura dell’attacco chimico, e che, magari, possano contemporaneamente disperdere enzimi tali da contrastare gli effetti nocivi dei gas”. È fantascienza? “Sul versante della rilevazione oggi esistono apparecchiature molto sofisticate, come gli spettrometri di massa, ma hanno costi proibitivi, 500 mila euro, ed è impensabile un utilizzo capillare. La sfida è di mettere in campo enzimi che identifichino l’attacco chimico e ne inibiscano gli effetti. In questa prospettiva, dal progetto Biodefensor, che aveva anche una componente di alta formazione destinata a 18 laureati della SecondaUniversità, è nata un’azienda innovativa, una start up. Abbiamo fatto anche alcuni test, impiegando un pesticida al posto dei gas nervini e verificando se gli enzimi che abbiamo prodotto in laboratorio sonoin grado di  degradarlo ed in quali tempi ciò accade. L’esperimento è andato bene”.
Fabrizio Geremicca
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