Fuga dall’Università

Dopo l’adunanza del 30 gennaio 2013, il Consiglio Universitario Nazionale (CUN) ha diffuso una dichiarazione relativa alle emergenze del sistema dell’università e della ricerca.
Solo poche parole per presentare il CUN a chi non lo conoscesse. Il CUN è un organo elettivo di rappresentanza del sistema universitario ed opera per promuovere e perseguire la qualità più elevata della ricerca e dell’istruzione superiore, per garantire e rafforzare le autonomie degli Atenei, per affermare il diritto degli studenti ad un sapere critico, ad una formazione adeguata alle necessità della persona, della società e delle professioni, assumendo tutte le iniziative idonee al perseguimento dei suoi obiettivi. Esso, inoltre, concorre, nell’ambito delle proprie competenze, all’attività di indirizzo e di coordinamento del sistema universitario, nel rispetto dell’autonomia degli Atenei; a tal fine, esprime pareri ed avanza proposte al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, secondo quanto stabilito dalle leggi. Insomma, un organismo che il Ministero dovrebbe ascoltare con attenzione.
Ebbene, nella dichiarazione resa pubblica, il CUN biasima esplicitamente il nostro Paese che continua ad investire sempre meno per la ricerca e l’università. Il grafico numero 1 mostra la spesa per l’educazione universitaria in rapporto al PIL differenziata in componente del finanziamento di provenienza pubblica e privata: l’Italia ha un rapporto fra le due componenti pubblico/privato uguale a quello della media dei paesi europei. Nella dichiarazione è scritto chiaramente che, sulla base delle rilevazioni OCSE, l’Italia occupa per spesa in educazione terziaria, in rapporto al PIL, il 32° posto su 37 Paesi considerati (dati 2009). Il nostro Paese investe appena l’1,0% del proprio PIL nel sistema universitario contro una media UE dell’1,5% ed una media OCSE dell’1,6%. Il ritardo dell’Italia si riscontra in tutto il quindicennio 1995-2009 analizzato dall’OCSE.
Oltre alla riduzione dei finanziamenti, la dichiarazione sottolinea il calo del numero, definito particolarmente preoccupante, di studenti immatricolati. La diminuzione degli immatricolati è solo in minima parte compensata dalle iscrizioni di studenti stranieri, il cui numero, nel periodo 2003-2012, ha conosciuto in ogni caso una crescita costante, passando da 8.252 a 11.510. Il calo però non è ovunque uguale: “L’Italia è spaccata – dice il Ministro dell’Università, Francesco Profumo, in un’intervista a Radio 24 – In due regioni, Piemonte e Trentino, aumentano le immatricolazioni. Poi ci sono regioni come Liguria, Veneto, Valle d’Aosta, Friuli, Marche e Toscana che hanno ridotto le immatricolazioni, ma meno della media nazionale. In altre arriviamo fino al 36% in meno. Il Paese è spaccato. Le università dal 1989 sono istituzioni autonome e responsabili, il ministero è un regista, ma la parte di attuazione avviene attraverso le autonomie dell’università”.
Le famiglie non 
credono più nel 
valore dello studio
Attorno ai trent’anni soltanto il 19% degli italiani risulta laureato, una percentuale pari alla metà della media europea, e con questi numeri si spiega meglio l’enorme disoccupazione giovanile che affligge il nostro Paese e lo spreco di intere generazioni.
La dichiarazione si sofferma sulla riduzione dell’offerta formativa, sulla diminuzione del personale docente e dei dottori di ricerca, ma sono state le prime due affermazioni riportate che hanno avuto ampia eco sulla stampa nazionale, tanto che il Corriere della Sera afferma senza mezzi termini che è come se in un decennio fosse scomparso un Ateneo come la Statale di Milano.
Credo non sia difficile trovare ragioni sociologiche per spiegare questo calo: le famiglie non credono più nel valore dello studio. Per garantire un futuro sicuro e migliore ai loro figli, preferiscono investire i pochi soldi in circolazione in altre cose, magari più effimere, ma certamente (?) più redditizie. E come dargli torto. Se l’università è l’unico motore riconosciuto da tutti per lo sviluppo e l’innovazione, male sta facendo la nostra classe politica a non investire su essa, specialmente in questo periodo di profonda crisi. Per dirla con le parole di Andrea Lenzi, presidente del CUN, l’università è l’unica istituzione in cui si sviluppa un’osmosi per un’imprenditoria di alto profilo e che produce competenze indispensabili per una pubblica amministrazione adeguata al terzo millennio. Ora, dato che le nostre università sono ancora in grado di produrre eccellenze, come mostra la fuga di cervelli dall’Italia, mi domando perché allora l’Università si sta trasformando in un’utopia. È mai possibile che ciò in cui credeva la mia generazione, quella degli attuali cinquantenni, vale a dire nello studio quale possibilità di riscatto, nella scuola come ascensore sociale, sia davvero morto e sepolto? Sembra proprio essere nata l’età del relativismo della conoscenza, che ha perduto tutta la sua carica morale, e quindi bisogna dare ragione alle estremizzazioni di Oswald Spengler, che, nel libro Il tramonto dell’Occidente (1918-1922), affermava “ogni cultura ha il suo proprio criterio, la cui validità comincia e finisce con esso”.
Al contrario, affermo con forza che bisogna ridare speranza all’università per dare un futuro al nostro Paese. Certo, non tutto funziona come dovrebbe ed occorre riconoscere alcuni errori commessi. Ma bisogna abbandonare improduttivi schemi censori, diffusi anche dall’Agenzia Nazionale di Valutazione, talora basati su parametri inaffidabili, per puntare invece su un continuo e diffuso miglioramento qualitativo delle attività didattiche e di ricerca, senza concentrarsi troppo sulle pur benemerite isole di eccellenza. Ma, si sa, senza soldi non si canta messa e tra non molto non avremo più nemmeno i cervelli in fuga, semplicemente perché non avremo più cervelli. E quando in un Paese la cultura muore, il Paese è senza futuro. Se non si capisce questo, l’Italia resterà schiacciata dalla crisi molto di più e molto più a lungo degli altri.
Speriamo che il governo che verrà abbia il coraggio di mettere tutto ciò tra le cose urgenti da fare.
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