I favolosi ’50 negli USA: tra nostalgia e femminismo

Erano gli anni in cui James Dean sfrecciava in auto con la sua giacca di pelle rossa in “Gioventù bruciata”, Marylin Monroe faceva maliziosamente alzare la gonna in “Quando la moglie è in vacanza” e Marlon Brando, con la sua canottiera madida di sudore in “Un tram che si chiama desiderio”, diventava l’idolo delle platee femminili di mezzo mondo. Erano i favolosi anni ’50 degli USA, gli “happy days” per eccellenza, caratterizzati da un profondo benessere che investiva la sfera economica quanto quella artistica, la vita sociale quanto quella individuale. Ma sarà poi giusto limitarsi a questa etichetta di “giorni felici” che la memoria collettiva ha riservato a questa epoca? E’ proprio questo il tema centrale della giornata di studi “Happy Days? Rediscovering the American Fifties” promossa dalla cattedra di Letteratura angloamericana della prof.ssa Donatella Izzo lo scorso 13 marzo. Ad aprire l’incontro il prof. Alexander Bloom, docente al Wheaton College, che si è concentrato sulla meta per eccellenza dei giovani americani negli anni ’50: New York. Una città in cui confluivano intellettuali americani, nativi e, dopo l’avvento del nazismo, moltissimi artisti europei, tra cui Brecht. In questo clima particolarmente favorevole e di grande confronto, nacque la “New York school” con i quadri di Pollock e de Kooning, la “beat generation” con i romanzi di Kerouac e gli spettacoli innovativi del “Living theatre”, sempre in bilico tra realtà e finzione. “Era una società in cui Freud rimpiazzava Marx e Kafka, con la rappresentazione dell’inadeguatezza dell’uomo nella società, dominava; una politica chiaramente ripresa nell’atteggiamento e nelle opere della beat”. Eppure gli anni ’50 furono anche il periodo del Maccartismo e di profondo materialismo nella cultura americana, fenomeni quasi sempre tralasciati: “spesso preferiamo cullarci con i ricordi del passato e vediamo ogni epoca che precede la nostra come un’età d’oro. Stupirà, ma anche negli anni ’50 a New York si rimpiangevano i ruggenti anni ’20”. Un po’ come dire “ho visto il futuro e non mi è piaciuto”. Prospettiva diversa, invece, presa in analisi dalla prof.ssa Debra Bernardi, del Carroll College, che ha esaminato la condizione femminile dell’epoca e, in particolare, quello che l’Italia rappresentava nel loro immaginario: “A dispetto di quanto si possa credere, la società protestante americana era profondamente patriarcale, mentre l’Italia rappresentava un luogo in cui liberarsi da una molteplicità di costrizioni sociali e poter vivere più liberamente anche e soprattutto la propria sessualità. Un luogo in cui le donne non erano relegate a ruoli stabiliti ed imposti dagli uomini. La parola d’ordine è break the rules”. Ad alimentare questa convinzione anche un politico come Roosevelt, che parlava di “virilità americana” e di usanze e costumi degli immigrati europei troppo teneri ed effeminati: urgeva una netta distinzione dei ruoli insomma. Questo mito sembra essere ancora pienamente condiviso dalle cittadine USA probabilmente perché, ad alimentarlo, ci sono una serie di pellicole che hanno per oggetto donne giovani ed indipendenti che in Italia riescono a vivere pienamente la propria femminilità, salvo poi tornare nella propria società maschilista portando con sé solo dei bei ricordi. Un chiaro esempio “Tempo d’estate” in cui Katharine Hepburn si sente libera di vivere la propria storia con un uomo addirittura sposato sullo sfondo della laguna veneziana, e il più celebre “Vacanze romane” in cui Audrey Hepburn, dopo una settimana vissuta senza nessun genere di vincoli e costrizioni sociali, lascia Gregory Peck per tornare alla sua vita di sempre. L’unica eccezione è rappresentata da “La primavera romana della Signora Stone”, pellicola in cui la ricca Vivien Leigh non farà ritorno alla sua vita di sempre: “ma si tratta di un testo di Tennessee Williams, un antesignano sotto tutti i punti di vista”. Che le cose in Italia non vadano esattamente così è probabilmente cosa nota alle moderne turiste d’oltreoceano. Eppure, pellicole recenti come “Sotto il sole della Toscana” e successi di Broadway come “light in the Piazza” continuano a ricalcare questa particolare suggestione. Si sa, i miti sono duri a morire e la cosa vale anche al contrario: nonostante la crisi mondiale e le difficili condizioni economiche, quando tramonterà mai il mito del “sogno americano?”.
Anna Verrillo
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