Diventare medico per aiutare i bambini ammalati del Terzo Mondo può essere una motivazione fortissima per iscriversi a Medicina. Curare il prossimo è l’ambizione di tutti gli studenti, ma farlo in condizioni estreme è un sogno che possono perseguire tutti? Lo chiediamo al prof. Enrico Di Salvo, ordinario di Chirurgia generale, il quale dal 1996 mette la sua professionalità al servizio delle popolazioni più povere, prima in Amazzonia e poi in Benin. “I giovani spesso si fanno prendere dall’entusiasmo ma aiutare chi ha più bisogno di noi è una cosa seria – risponde – L’impegno dura tutto l’anno, non solo nelle due o tre settimane in cui si va in Africa”. Oltre all’attività medica in loco, infatti, i volontari si occupano del trasferimento in Italia dei pazienti da sottoporre ad interventi più complessi, nonché dell’organizzazione di eventi per raccogliere fondi destinati ad acquistare attrezzature mediche per l’ospedale dei padri Camilliani di Zinviè. Il professore procede ad un’attenta selezione dei candidati. Li chiama a colloquio per capire quali siano le loro reali motivazioni e se siano in grado di affrontare la prova: “Bisogna essere solidi. Si vivono esperienze forti, a volte toccanti. Non si va lì a cercare se stessi ma gli altri. Si impara tanto da loro, si capisce cosa conta davvero. I miei allievi spesso partono ragazzini e tornano uomini”.
Tra i giovani dottori, laureati alla Federico II, che hanno seguito il professore nelle sue spedizioni in Benin vi sono Andrea Scala che esercita in Inghilterra, Umberto Bracale, Andrea Imparato e Marisa Volpe. “Sono stato 4 volte in Benin, due prima della Specializzazione in Chirurgia generale conseguita nel 2007 – racconta Bracale, chirurgo dell’Ospedale San Camillo di Trento– E’ un’esperienza bellissima da cui si torna tremendamente cambiati. Anche se poi, al rientro, la routine sembra far passare in secondo piano quello che hai visto”. Imparato, che opera presso l’Ospedale di Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, ha accompagnato 6 volte il prof. Di Salvo ed è diventato il suo anestesista di fiducia: “La mia è stata una scelta naturale. Mi è stato proposto di dare una mano e ho accettato di buon grado. E’ un’esperienza che consiglierei a tutti. Mi ha migliorato come persona e quindi anche come medico”. La realtà dei villaggi africani era però diversa da come si aspettava: “E’ impressionante vedere con i propri occhi che quelle popolazioni vivono nelle capanne e senza acqua corrente, proprio come 3000 anni fa. Però mi hanno senz’altro dato molto di più di quello che io ho dato loro”. L’anestesista Marisa Volpe, che lavora presso il II Policlinico, ha partecipato per la prima volta ad una spedizione in Benin nello scorso giugno: “E’ una cosa che volevo fare da tempo ma ho preferito aspettare il momento giusto. L’impatto è molto forte, bisogna partire sereni. Ciò che tocca di più sono gli interventi su bambini anche molto piccoli, la malnutrizione, la diffusione di malattie che dovrebbero essere in gran parte sradicate. La malattia è uguale qua e là ma l’alta mortalità infantile è dura da reggere dal punto di vista emotivo”. Nei Paesi del Terzo mondo cambia anche il modo di svolgere la professione: “La medicina lì è basata sul ragionamento clinico. Non hai grandi attrezzature chirurgiche a disposizione e operare diventa molto più difficile. Anche il rapporto col paziente è diverso, è molto più diretto, basato sulla fiducia”, afferma Bracale. In un villaggio africano si impara ad adattarsi, a lavorare nella precarietà ma anche a mettere in discussione le proprie categorie valoriali. “Dove la vita è più dura, bisogna darsi da fare. Non c’è tempo per la malinconia esistenziale di cui soffrono i nostri giovani – spiega il prof. Di Salvo – In questi posti spesso avvengono piccoli miracoli, si è più vicini a Dio. Ma assistere i sofferenti è un obbligo morale anche per chi non crede. C’è un oceano di bisogno. Attivarsi per il prossimo è la parte più bella della vita”.
Tra i giovani dottori, laureati alla Federico II, che hanno seguito il professore nelle sue spedizioni in Benin vi sono Andrea Scala che esercita in Inghilterra, Umberto Bracale, Andrea Imparato e Marisa Volpe. “Sono stato 4 volte in Benin, due prima della Specializzazione in Chirurgia generale conseguita nel 2007 – racconta Bracale, chirurgo dell’Ospedale San Camillo di Trento– E’ un’esperienza bellissima da cui si torna tremendamente cambiati. Anche se poi, al rientro, la routine sembra far passare in secondo piano quello che hai visto”. Imparato, che opera presso l’Ospedale di Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta, ha accompagnato 6 volte il prof. Di Salvo ed è diventato il suo anestesista di fiducia: “La mia è stata una scelta naturale. Mi è stato proposto di dare una mano e ho accettato di buon grado. E’ un’esperienza che consiglierei a tutti. Mi ha migliorato come persona e quindi anche come medico”. La realtà dei villaggi africani era però diversa da come si aspettava: “E’ impressionante vedere con i propri occhi che quelle popolazioni vivono nelle capanne e senza acqua corrente, proprio come 3000 anni fa. Però mi hanno senz’altro dato molto di più di quello che io ho dato loro”. L’anestesista Marisa Volpe, che lavora presso il II Policlinico, ha partecipato per la prima volta ad una spedizione in Benin nello scorso giugno: “E’ una cosa che volevo fare da tempo ma ho preferito aspettare il momento giusto. L’impatto è molto forte, bisogna partire sereni. Ciò che tocca di più sono gli interventi su bambini anche molto piccoli, la malnutrizione, la diffusione di malattie che dovrebbero essere in gran parte sradicate. La malattia è uguale qua e là ma l’alta mortalità infantile è dura da reggere dal punto di vista emotivo”. Nei Paesi del Terzo mondo cambia anche il modo di svolgere la professione: “La medicina lì è basata sul ragionamento clinico. Non hai grandi attrezzature chirurgiche a disposizione e operare diventa molto più difficile. Anche il rapporto col paziente è diverso, è molto più diretto, basato sulla fiducia”, afferma Bracale. In un villaggio africano si impara ad adattarsi, a lavorare nella precarietà ma anche a mettere in discussione le proprie categorie valoriali. “Dove la vita è più dura, bisogna darsi da fare. Non c’è tempo per la malinconia esistenziale di cui soffrono i nostri giovani – spiega il prof. Di Salvo – In questi posti spesso avvengono piccoli miracoli, si è più vicini a Dio. Ma assistere i sofferenti è un obbligo morale anche per chi non crede. C’è un oceano di bisogno. Attivarsi per il prossimo è la parte più bella della vita”.