Ivano Dionigi racconta la triplice lezione del latino, lingua “utile e orientata al futuro”

Il latino è una lingua tutt’altro che morta. È questo il fuso intorno al quale si riavvolge il discorso del prof. Ivano Dionigi, Presidente della Pontificia Accademia di Latinità, che è stato oratore e ospite dell’appuntamento del 26 aprile presso l’Aula Pessina dell’Università Federico II. Oggetto dell’incontro il suo ultimo libro, “Il presente non basta. La lezione del latino”, in cui l’autore – peraltro già Rettore dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna – rivendica l’importanza del lascito storico, culturale e linguistico, ma soprattutto simbolico, di una lingua che continua a resistere nel lessico d’uso comune, ancora parlata in un’epoca e in un’Europa prede dell’anglofonia. A presentarlo le lodi di benvenuto e i ringraziamenti di Gaetano Manfredi, Rettore dell’Ateneo federiciano, cui seguono le parole del Prorettore Arturo De Vivo. “La difesa delle Humanities è una tematica su cui il dibattito attuale è in verità molto acceso. Il latino, più che darci risposte, può aiutarci a porre le domande”. ‘Come coniugare l’antico con le nuove istanze che irrompono nella società?’, il quesito in cima alla lista. “Si scrive latino, si legge ricchezza culturale. Spesso mi chiedono: ‘E quali competenze offre?’. Le più importanti, rispondo, ossia: leggere, scrivere e parlare”. Con quest’assunto il latinista avvia una prolusione fatta di citazioni ed echi di ascendenza classica che rimandano agli autori prediletti nei suoi studi, Lucrezio e Seneca. “L’accusa mossa al latino è che sia qualcosa di superfluo e passato. Invece, è una lingua utile e orientata al futuro, due cose che contano oggi. Per dimostrarlo voglio rendervi partecipe della triplice eredità che ci trasmette: il primato della parola, la nobiltà della politica, la centralità del tempo”. La parola. Venticinque secoli fa, “la parola ha trovato a Roma una sua disciplina, la retorica, come ad Atene fu per la filosofia. Compito di quest’invenzione è ‘docere, delectare, movere’, ossia insegnare, affascinare e mobilitare le coscienze per essere all’altezza del compito di ‘professor’, chi sa parlar bene schierando l’eloquenza a fianco della sapienza”. Ma la parola può essere un’arma a doppio taglio, se non si sa come adoperarla. “Alla parola è possibile: da un lato unifica e salva, può spegnere la paura e alimentare la gioia; dall’altro è diabolica, può dividere e creare il nemico”. Usando male le parole, facendo demagogia, “si opprimono gli innocenti”. Cosa ne è oggi della parola? “Siamo preoccupati delle sorti del cosmo, dell’ecologia ambientale, ma qui urge un’ecologia linguistica. La parola non sta bene in salute, perché la confondiamo coi vocaboli e col mezzo comunicativo”. Si può recuperare il volto autentico delle parole scegliendole accuratamente per il loro introito semantico, il significato, “altrimenti usiamo quelle ovvie, che dicono gli altri, che troviamo già usurate per la via”. Del resto, quello del filologo non è affatto “un mestiere umbratile, perché tutti dobbiamo essere amici gelosi della parola, invece siamo lontani da questa dimensione”. Cosa c’entra il latino? In quanto ‘mater certa’ dell’italiano, “è l’unico idioma che può restituirci il valore originario e genuino della parola. È lingua morta perché non la parliamo, ma nessuna lingua muore, tutt’al più si trasforma”. La politica. È pur vero che “le parole non vanno tradite, altrimenti si riverberano”. Tradire il senso, l’etimologia di una parola, “vuol dire tradire
la lingua e svendere con essa impunemente la storia, la morale, l’etica e la politica”. Un esempio illuminante: “aver sostituito l’elogio dei maestri (dal lat. ‘colui che sa e vale di più’) con l’ossequio ai ministri (lett. i ‘servitori’)”. Tuttavia, la politica non può fare a meno dei suoi interlocutori privilegiati: cultura e tecnica. “È stato il latino a inventare la ‘res publica’, non semplicemente repubblica, bensì le prerogative di tutti. E in questo caso la tecnica
non basta, ci vuole la mediazione della poetica affinché la guida politica funzioni”. In quest’era controcorrente, di anti-politica, “bisogna continuare ad affermare che sono due marche a distinguerci: il ‘logos’ e la ‘polis’, vocati a stare insieme”. Il tempo. Infine, “sono molto preoccupato per i giovani, il lavoro, le loro crisi d’identità, perché con la rivoluzione digitale siamo responsabili di aver staccato la spina del tempo”. In teoria, la tecnologia rappresenta una forma avanzata di conoscenza, “eppure, smettendo di venerare una divinità, stiamo creando un nuovo dio nel web”. Se con un clic si può essere ‘hic et ubique’, “dov’è finito il pathos della distanza, l’eros della differenza?”, si chiede lo studioso. Il prezzo da pagare, insomma, è altissimo. “Rischiamo l’inferno dell’uguale, di diventare con l’inter-faccia una massa anonima senza volto, tutti a usare gli stessi vocaboli cadaverici, tutti con lo stesso stile. Dovremmo esercitare il paradigma della memoria, non più soltanto quello della dimenticanza”. Nel confronto tra l’uomo e la macchina, inevitabile traguardo
del progresso, si è dunque generato un circolo vizioso: “L’uomo non crede di essere più all’altezza delle sue scoperte e prova una vergogna prometeica, perché si sente inferiore rispetto alla sua creatura. Un giorno non ci saremo più, mentre la macchina continuerà a vivere al posto nostro”. Come uscire dall’impasse? “Con ‘oratio et ratio’, ragione e discorso, possiamo superare i nostri  limiti”. Occorre volgere lo sguardo all’indietro guardando ai classici
che sono nel contempo la principale risorsa del nostro futuro. “Per costruire nuovi modelli culturali, ci vuole un pensiero, un’anima. Se la scienza ha l’onere dell’ars respondendi, della risposta ai problemi del momento, alle humanae litterae spetta l’onore dell’ars interrogandi, della domanda”. L’unico interrogativo che resta a margine di queste riflessioni è: ‘Cos’è un classico?’. “Non ciò che è già stato, ma ciò che ha ancora da essere”, afferma in ultimo Dionigi. “Perché solo chi avrà letto una tragedia di Sofocle, una terzina dantesca, o un verso de ‘La ginestra’, potrà prendere coscienza di sé e del valore altrui, senza più obbedire passivamente”. Lo stesso Eco, in fondo, diceva: ‘il classico ti allunga la vita’.
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