Quando la professione è una questione di cuore, la pensione non basta per dedicarsi a tempo pieno a divano, pantofole e televisione. Quando la professione è una questione di cuore, l’addio al passato è vicinissimo a un buongiorno al futuro fatto di nuovi obiettivi da raggiungere. Sono solo di circostanza i saluti alla Federico II da parte del professor Carlo Vosa, classe ‘46, ordinario di Cardiochirurgia dal 2000. Ci sarà tempo per godersi la pensione. Per ora non intende lasciare in sospeso alcun discorso: “porterò avanti una collaborazione a titolo gratuito con la Scuola di Medicina della Federico II per continuare due ricerche”. La prima riguarda “il prelievo da cadavere da impiantare su bambini ai quali manca la valvola polmonare. È un grosso vantaggio rispetto alle protesi artificiali
che vanno sostituite periodicamente perché si deteriorano. I collaboratori che lascio sono ben decisi a continuare quest’attività. Io ci sarò perché devo terminare il lavoro iniziato”.
Ricordi e rimpianti
Non si fermerà a Napoli. Abituato a missioni umanitarie in giro per il mondo, il professore ha già annotato in agenda un viaggio in Palestina, “probabilmente all’inizio del 2017”, per “organizzare il centro di Cardiochirurgia pediatrica dell’Università An-Najah”, Ateneo che con la Federico II ha firmato una convenzione “che prevede la
possibilità di fare formazione agli studenti di Nablus solo dal punto di vista didattico e operatorio. Dopo la pensione ho tutto il tempo per andare, insegnare e far nascere un centro in un paese che ne ha bisogno”. Si darà da fare, scegliendo dove spendersi e dove no: “non penso mai di poter operare in una clinica privata. Sono di altissimo livello, ma non ho la mentalità per lavorare fuori da una struttura pubblica”. Pubblica, come la Federico II. Cosa gli mancherà dell’Università? “Il rapporto con gli studenti, la ricerca e lo studio finalizzato a migliorare le tecniche, senza dimenticare che l’Università è pure assistenza, perché è quest’ultima che fa migliorare la formazione”. Ciò di cui farà volentieri a meno, invece, saranno i bilanci: “non mi mancheranno alcuni progetti che avevo previsto ma che, viste le difficoltà economiche, non ho potuto portare a termine”. Tipo? “Un’informatizzazione completa del reparto di Cardiochirurgia, che avevo iniziato e che avrebbe permesso di controllare per ogni singola compressa da chi era data e a quale paziente. Ai medici, invece, avrebbe consentito di consultare al letto dell’ammalato elettrocardiogramma, ecocardiogramma e coronarografia. Il progetto era partito, ma poi è stato bloccato”. Per fortuna non andò così negli anni ’80 quando, dopo un’esperienza a Bordeaux alla “Clinique Chirurgicale des Maladies Cardiaques”, allora diretta dal professor Fontan, con il Maestro Maurizio Cotrufo vide realizzata “l’apertura di un reparto pediatrico al Monaldi. Il Tribunale per i diritti del malato ci diede il premio come miglior reparto italiano, perché a misura di bambino. È stato uno dei primi reparti dove non c’erano numeri. Le stanze erano chiamate con nomi di animali e avevano televisione e letto per la madre. A quell’epoca era all’avanguardia”. Con tante attività per i piccoli: “lì abbiamo iniziato la clown terapia, la musicoterapia e siamo stati tra i primi a fare la scuola in ospedale, con l’arrivo di insegnanti che permettessero ai bambini ospedalizzati di continuare
a studiare. Adesso quasi tutti gli ospedali pediatrici lo prevedono”.
I riconoscimenti
Cita i Maestri, ma non dimentica i tanti allievi passati per la Scuola di Specializzazione in Cardiochirurgia della Federico II da lui diretta dal 2008: “ho preso l’abitudine di mandare al primo anno tutti gli allievi in centri europei. La formazione finale doveva essere lo spiraglio di un impiego futuro fuori dall’Italia, visto che nel nostro paese il numero di cardiochirurghi è molto elevato”. Non fa nomi, ma li ricorda tutti, grazie a rapporti che continuano nel tempo: “ancora oggi, a distanza di anni, sono in contatto con i miei allievi. Mi dicono quello che stanno facendo e mi chiedono consigli, soprattutto quando si devono spostare da un ospedale all’altro”. Cosa gli ha permesso di diventare un Maestro? “L’amore per il lavoro. Mi sono dedicato all’attività pubblica per il miglioramento dell’assistenza ai pazienti ricoverati e dell’ambiente ospedaliero”. Un impegno che nel 2004 si è tradotto nella medaglia d’oro alla Sanità pubblica e, lo scorso ottobre, gli è valso un Riconoscimento Speciale nell’ambito della dignità umana in occasione dell’VIII Premio Nazionale Maria Rita Saulle: “significa che le persone capiscono quello che io e la mia equipe abbiamo fatto fino a oggi nei Balcani, in Medio Oriente, Algeria, Palestina e Iraq, sia per i bambini che abbiamo operato localmente, sia per quelli che siamo riusciti a far venire a Napoli con l’appoggio del Policlinico”. Parla al plurale: “la Cardiochirurgia è un’attività di equipe. Se non c’è una collaborazione molto stretta si possono creare molti disguidi”.
I piccoli pazienti
La sua carriera conta circa ottomila interventi: “ricordo il primo trapianto pediatrico a Napoli a un bambino che era in Palestina e attendeva il permesso di uscire dal suo paese per arrivare da noi. C’è voluto un po’ di tempo e l’intervento di Ciampi per ottenerlo. Dopo fu portato in terapia intensiva, dove restò per tre settimane. Il cuore non ce la faceva più. Fu intubato”. Poi? “Uscì la disponibilità di un cuore dalla Puglia e fu effettuato il trapianto. Adesso è un ragazzo di 23 anni, laureato in Informatica che lavora in un’agenzia. Lo abbiamo rivisto poco tempo fa”. Nella sua mente restano tutti i neonati “affetti da trasposizione dei grossi vasi, sottoposti a un intervento da effettuare a pochi giorni dalla nascita per far tornare il cuore normale. Rivederli oggi, all’età di 20 anni, come persone normali
che fanno sport è una grande soddisfazione”. Risultati importanti che hanno alle spalle un lavoro duro e senza orari. Un aspetto che, a suo avviso, gli studenti devono tener ben presente: “la Cardiochirurgia è molto difficile, è una branca nella quale dopo l’operazione un bambino o un adulto va seguito. Bisogna dedicarsi al paziente una giornata intera. Sono state molte le notti dove mi sono alzato per andare in ospedale a verificare cosa stava succedendo a un paziente operato la mattina”. Anche le notti insonni vanno messe in conto quando la professione è una questione di cuore.
che vanno sostituite periodicamente perché si deteriorano. I collaboratori che lascio sono ben decisi a continuare quest’attività. Io ci sarò perché devo terminare il lavoro iniziato”.
Ricordi e rimpianti
Non si fermerà a Napoli. Abituato a missioni umanitarie in giro per il mondo, il professore ha già annotato in agenda un viaggio in Palestina, “probabilmente all’inizio del 2017”, per “organizzare il centro di Cardiochirurgia pediatrica dell’Università An-Najah”, Ateneo che con la Federico II ha firmato una convenzione “che prevede la
possibilità di fare formazione agli studenti di Nablus solo dal punto di vista didattico e operatorio. Dopo la pensione ho tutto il tempo per andare, insegnare e far nascere un centro in un paese che ne ha bisogno”. Si darà da fare, scegliendo dove spendersi e dove no: “non penso mai di poter operare in una clinica privata. Sono di altissimo livello, ma non ho la mentalità per lavorare fuori da una struttura pubblica”. Pubblica, come la Federico II. Cosa gli mancherà dell’Università? “Il rapporto con gli studenti, la ricerca e lo studio finalizzato a migliorare le tecniche, senza dimenticare che l’Università è pure assistenza, perché è quest’ultima che fa migliorare la formazione”. Ciò di cui farà volentieri a meno, invece, saranno i bilanci: “non mi mancheranno alcuni progetti che avevo previsto ma che, viste le difficoltà economiche, non ho potuto portare a termine”. Tipo? “Un’informatizzazione completa del reparto di Cardiochirurgia, che avevo iniziato e che avrebbe permesso di controllare per ogni singola compressa da chi era data e a quale paziente. Ai medici, invece, avrebbe consentito di consultare al letto dell’ammalato elettrocardiogramma, ecocardiogramma e coronarografia. Il progetto era partito, ma poi è stato bloccato”. Per fortuna non andò così negli anni ’80 quando, dopo un’esperienza a Bordeaux alla “Clinique Chirurgicale des Maladies Cardiaques”, allora diretta dal professor Fontan, con il Maestro Maurizio Cotrufo vide realizzata “l’apertura di un reparto pediatrico al Monaldi. Il Tribunale per i diritti del malato ci diede il premio come miglior reparto italiano, perché a misura di bambino. È stato uno dei primi reparti dove non c’erano numeri. Le stanze erano chiamate con nomi di animali e avevano televisione e letto per la madre. A quell’epoca era all’avanguardia”. Con tante attività per i piccoli: “lì abbiamo iniziato la clown terapia, la musicoterapia e siamo stati tra i primi a fare la scuola in ospedale, con l’arrivo di insegnanti che permettessero ai bambini ospedalizzati di continuare
a studiare. Adesso quasi tutti gli ospedali pediatrici lo prevedono”.
I riconoscimenti
Cita i Maestri, ma non dimentica i tanti allievi passati per la Scuola di Specializzazione in Cardiochirurgia della Federico II da lui diretta dal 2008: “ho preso l’abitudine di mandare al primo anno tutti gli allievi in centri europei. La formazione finale doveva essere lo spiraglio di un impiego futuro fuori dall’Italia, visto che nel nostro paese il numero di cardiochirurghi è molto elevato”. Non fa nomi, ma li ricorda tutti, grazie a rapporti che continuano nel tempo: “ancora oggi, a distanza di anni, sono in contatto con i miei allievi. Mi dicono quello che stanno facendo e mi chiedono consigli, soprattutto quando si devono spostare da un ospedale all’altro”. Cosa gli ha permesso di diventare un Maestro? “L’amore per il lavoro. Mi sono dedicato all’attività pubblica per il miglioramento dell’assistenza ai pazienti ricoverati e dell’ambiente ospedaliero”. Un impegno che nel 2004 si è tradotto nella medaglia d’oro alla Sanità pubblica e, lo scorso ottobre, gli è valso un Riconoscimento Speciale nell’ambito della dignità umana in occasione dell’VIII Premio Nazionale Maria Rita Saulle: “significa che le persone capiscono quello che io e la mia equipe abbiamo fatto fino a oggi nei Balcani, in Medio Oriente, Algeria, Palestina e Iraq, sia per i bambini che abbiamo operato localmente, sia per quelli che siamo riusciti a far venire a Napoli con l’appoggio del Policlinico”. Parla al plurale: “la Cardiochirurgia è un’attività di equipe. Se non c’è una collaborazione molto stretta si possono creare molti disguidi”.
I piccoli pazienti
La sua carriera conta circa ottomila interventi: “ricordo il primo trapianto pediatrico a Napoli a un bambino che era in Palestina e attendeva il permesso di uscire dal suo paese per arrivare da noi. C’è voluto un po’ di tempo e l’intervento di Ciampi per ottenerlo. Dopo fu portato in terapia intensiva, dove restò per tre settimane. Il cuore non ce la faceva più. Fu intubato”. Poi? “Uscì la disponibilità di un cuore dalla Puglia e fu effettuato il trapianto. Adesso è un ragazzo di 23 anni, laureato in Informatica che lavora in un’agenzia. Lo abbiamo rivisto poco tempo fa”. Nella sua mente restano tutti i neonati “affetti da trasposizione dei grossi vasi, sottoposti a un intervento da effettuare a pochi giorni dalla nascita per far tornare il cuore normale. Rivederli oggi, all’età di 20 anni, come persone normali
che fanno sport è una grande soddisfazione”. Risultati importanti che hanno alle spalle un lavoro duro e senza orari. Un aspetto che, a suo avviso, gli studenti devono tener ben presente: “la Cardiochirurgia è molto difficile, è una branca nella quale dopo l’operazione un bambino o un adulto va seguito. Bisogna dedicarsi al paziente una giornata intera. Sono state molte le notti dove mi sono alzato per andare in ospedale a verificare cosa stava succedendo a un paziente operato la mattina”. Anche le notti insonni vanno messe in conto quando la professione è una questione di cuore.