Le storie dei ricercatori rientrati dall’estero

“Sono un filosofo e mi occupo di questioni che riguardano il diritto e la politica”. Ferdinando Giuseppe Menga, che con espressione giornalistica forse abusata si può definire ‘un cervello che rientra’, si racconta così, in poche parole, a partire dai suoi interessi di ricerca. È uno dei sei studiosi che rientrano alla Federico II in virtù del Programma Rita Levi Montalcini. Prevede, quest’ultimo, che chi sia almeno da tre anni all’estero per attività di docenza e ricerca e abbia un curriculum dal profilo internazionale riconosciuto possa candidarsi a rientrare in Italia ed indicare l’Ateneo nel quale avrebbe interesse a lavorare. Se l’Università in questione procede con la chiamata del ricercatore, il Ministero dell’Università gli finanzia, per tre anni, un progetto di ricerca. Se il cervello che chiede di ritornare in Italia è dotato di abilitazione ad associato, al termine dei tre anni l’Ateneo si impegna a reclutarlo come tale. Ogni anno il Progetto Montalcini prevede che possano fruire di questa opportunità fino a 24 studiosi. Sei di essi, per il 2017, hanno chiesto ed ottenuto di essere chiamati dall’Ateneo Federico II. Sono: Davide Cacchiarelli (Scienze mediche traslazionali), Antonio Abate (Ingegneria chimica, dei materiali e della produzione industriale), Massimo Taronna (Fisica), Diego Carnevale (Studi umanistici), Emma Maglio (Architettura), Ferdinando Giuseppe Menga (Giurisprudenza).
MENGA
Esperienza appagante 
in Germania “ma 
vissuta come una 
forma di esilio”
“Io – riprende il filo Menga – ho studiato a Trieste ed a Napoli, dove mi sono laureato in Filosofia nel 2001. Emigrare dopo la laurea, per me che avevo desiderio e passione di continuare il percorso di ricerca in ambito universitario, fu una strada obbligata. Ho frequentato un dottorato in Germania in Filosofia Pratica, che era finanziato dallo Stato tedesco. Poi sono rientrato in Italia per un dottorato in Filosofia del diritto all’Università di Catania. Dal 2011 ad oggi sono stato di nuovo in Germania, precisamente a Tubinga, dove ho continuato a svolgere ricerca e sono stato impiegato anche nell’attività didattica”. Prosegue Menga: “Quello che mi ha spinto a tornare in Italia è un discorso quasi di chiusura del cerchio. L’esperienza di ricerca all’estero appaga, ma è vissuta quasi come una forma di esilio e pesa l’impossibilità di restituire all’università italiana il capitale di formazione ricevuto”. A proposito di sistemi universitari, ritorna spesso il confronto tra quello italiano e quello di altri paesi europei: Germania, Francia, Gran Bretagna. Si discute non di rado – l’ultima occasione è stata lo scorso autunno, a seguito di alcune inchieste della magistratura su concorsi che gli inquirenti ritengono siano stati truccati ed addomesticati – circa i vizi di un meccanismo, quello italiano, dove meritocrazia e selezione dei migliori sarebbero spesso scavalcati da familismo e blocchi di potere accademici. Inevitabile interrogare sul punto Menga, che dalla Germania ha scelto di tornare in Italia e che conosce bene entrambe le realtà universitarie. “Chiaramente – risponde –  le dinamiche accademiche favoriscono strutture di potere in Italia come all’estero. Pure in Germania ce ne sono. All’estero, però, ci si assume grande responsabilità nel cooptare. Il Dipartimento deve rispondere di chi ha preso. Se la persona non pubblica o non studia, il Dipartimento poi è penalizzato. In Italia questa attenzione al profilo scientifico dei ricercatori è stata solo da qualche tempo adeguatamente valorizzata, sia attraverso la riforma universitaria con il meccanismo dell’abilitazione, sia mediante strumenti ad hoc – il Programma Rita Levi Montalcini è certamente uno di essi – che andrebbero potenziati e irrobustiti sotto il profilo delle risorse finanziarie”.
MAGLIO
La sfida di un 
architetto itinerante
Parte da Bari, tocca la Francia, in Provenza, e la Grecia – l’isola di Creta – poi passa per Torino ed arriva adesso a Napoli l’esperienza di formazione e di ricerca di Emma Maglio, un architetto che coltiva la passione per l’architettura di età moderna sulle isole greche. Arriverà alla Federico II, nell’ambito del Progetto Montalcini, la prossima estate. Ora è a Torino, dove ha vinto un posto da ricercatore. “Mi sono laureata all’Università di Bari nel 2007 – racconta – e lì ho proseguito con un dottorato di ricerca in Storia dell’arte. Quando si è concluso, ho capito perfettamente che non c’erano opportunità per andare avanti nel mio percorso nell’Ateneo pugliese. Ho deciso, dunque, di andare fuori dall’Italia. Un po’ per non rinunciare al mio sogno professionale, un po’ perché avevo voglia di condurre esperienze di vita diverse”. Oltralpe la giovane ricercatrice lavora per cinque anni, con contratti di ricerca post dottorato, nell’Università di Aix en Provence. “Differenze con l’Italia? Lì le possibilità di ricerca per i giovani sono indubbiamente maggiori che da noi, perché le risorse sono molto più abbondanti e le fonti di finanziamento dei progetti ben più varie che nel nostro Paese. Ciò detto, ed è innegabile, non mi pare giusto mitizzare il mondo universitario di altre realtà, nello specifico della Francia. Quando si tratta di concorsi e per il reclutamento, le logiche e le dinamiche non sono poi troppo diverse da quelle delle quali molto ci si lamenta in Italia”. Ultimati i cinque anni in Francia, Maglio ha poi proseguito le sue ricerche per 12 mesi a Creta, in virtù di un finanziamento comunitario. “Esperienza – afferma – senza dubbio molto bella ed interessante. Per me che studio proprio le architetture moderne del Mediterraneo, vivere a Creta ha significato avere la possibilità di stare a contatto continuo con l’oggetto della mia ricerca”. La vittoria nel concorso a ricercatore presso l’Università di Torino è arrivata dopo che l’architetto Maglio aveva già presentato richiesta di partecipare al Progetto Montalcini. “I risultati di quest’ultimo – ricorda – sono arrivati dopo che avevo già vinto il posto da ricercatore al Politecnico di Torino. Quando mi sono candidata per questa edizione del Montalcini ero all’estero. Ho avuto l’opportunità di contrattare, per così dire, la mia entrata in servizio a Napoli”. La scelta della Federico II non è stata casuale. Sottolinea: “Conoscevo già la vostra Università perché ho avuto contatti negli anni scorsi con vari colleghi. Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto lavorare in questo Ateneo e sono sicura che sarà una esperienza bella e positiva”. Circa le incognite del rientro in Italia, sottolinea: “Avevo voglia di misurarmi con i concorsi da ricercatore nel nostro Paese ed è stata una sfida. Volevo vedere se il sistema italiano mi avrebbe riconosciuto esperienza e professionalità acquisite altrove. Finora è andata bene”.
CACCHIARELLI
Dagli Stati Uniti alla 
Federico II per la ricerca
sulle malattie genetiche
Davide Cacchiarelli, 33 anni, si è laureato nel 2007 in Genetica e Biologia Molecolare a La Sapienza di Roma. Nell’Ateneo della capitale ha anche conseguito nel 2011 un dottorato, sempre in Genetica e Biologia Molecolare. “Sono partito per gli Stati Uniti alla volta di Boston nel 2011 – racconta – e sono ritornato nel 2017”. Ha lavorato alla Harvard University e al Broad Institute dove ha studiato i meccanismi biologici delle cellule staminali tramite approcci genomici. La scelta di partecipare al progetto Montalcini: “avevo intenzione di continuare la carriera in Italia. Ho pensato che questo programma sarebbe stato un buon inizio per stabilire il mio gruppo di ricerca”. Il perché della Federico II: “ho avuto la possibilità di conoscere gruppi di ricerca che qui lavorano sui meccanismi e terapie delle malattie genetiche con approcci innovativi ed ho pensato di potermi ben integrare e fornire nuove competenze”. Il progetto al quale lavorerà nei prossimi tre anni e per il quale ha ricevuto un finanziamento, spiega, “mira ad analizzare i meccanismi molecolari che regolano il processo di ‘reprogramming cellulare’, una tecnologia che permette di ottenere cellule staminali a partire da cellule adulte, e di studiare come questo approccio può essere modulato per fini terapeutici”. Ad un ricercatore che ha lavorato per anni negli Stati Uniti ed ha scelto di tornare in Italia è inevitabile porre il quesito circa le differenze che ha riscontrato nei due contesti scientifici. In particolare, è vero che all’estero si valorizza di più il merito, rispetto agli Atenei italiani? Ecco la risposta di Cacchiarelli: “Ho avuto esperienze sia in Italia che in America e per quello di cui posso dare testimonianza diretta: non ho trovato una particolare differenza. Credo che per valorizzare il merito servano risorse che ad oggi in Italia sono limitate. Ad Harvard la qualità della didattica e delle risorse è eccellente ma un anno di studi nelle università americane costa circa 20-50 mila euro per ogni studente solo in tasse e l’università ricava dalle agenzie pubbliche o private un 50-80% aggiuntivo per ogni finanziamento vinto (overhead). Con queste risorse le università americane possono valorizzare il merito ma questo limita l’accesso alla formazione superiore che in Italia è invece garantita e relativamente economica. Ovviamente la situazione dipende da molti altri fattori. Alcune Università come la Federico II, però, stanno cercando di favorire il merito investendo notevoli risorse in programmi per giovani ricercatori come il bando STAR e sul programma Montalcini che nonostante sia ministeriale prevede lo stanziamento pure di risorse dell’università ospitante”. Infine, che consigli dà ad un giovane che intraprenda ora il percorso di studi in Medicina per metterlo a frutto nel migliore dei modi? “Studiare molto, appassionarsi ad una materia ed approfondirla cercando la guida del docente di riferimento. Prevedere un periodo di formazione all’estero per padroneggiare una lingua ed ampliare i propri orizzonti”. 
Fabrizio Geremicca
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