Missioni umanitarie, medici in prima linea

C’è chi sceglie Medicina per assicurarsi un futuro lavorativo roseo, chi per il prestigio della professione. Tanti, ancora, sono motivati dal mettere le proprie competenze al servizio degli altri e si impegnano, al termine degli studi, in missioni umanitarie in aree del mondo segnate da carestie, epidemie, conflitti. Un esempio, l’esperienza di volontariato con la Onlus Pro Africa – Bartolomeo Petrucci di tre specializzandi della Federico II. “In Burkina Fasu ti senti più medico”, affermano Lia Santulli, Rosanna Esposito e Pierpaolo Sorrentino che hanno operato, in periodi diversi, nel villaggio di Youngou. A colpirli è stata la diversa fiducia che nei Paesi del cosiddetto Terzo Mondo i pazienti ripongono nel medico. “Eravamo i medici bianchi, quelli ‘bravi’, ed in più facevamo servizio gratuito – afferma Lia, al V anno di Specializzazione in Neurologia, che è andata in Burkina Fasu lo scorso gennaio ed ora sta trascorrendo un periodo di formazione all’Ospedale Niguarda di Milano – Avevo già svolto tirocinio in corsia ma in Africa il rapporto con i pazienti è totalmente diverso. Ti arriva di tutto. Bambini anemici, con la febbre altissima e la malaria. L’ospedale è distante dal villaggio e la popolazione non può permettersi il costo delle cure. Devono pagare non solo le medicine, ma anche il guanto usato per visitarli. Nel nostro ambulatorio, invece, era tutto gratuito. Avevamo portato con noi materiali e farmaci”. Rosanna, che oggi lavora in un ospedale di Firenze, è stata in Africa nel 2009, quando era al IV anno di Specializzazione in Medicina Interna. Ricorda: “In Africa c’è bisogno di saper fare di tutto. Occorre avere anche competenze pratiche. Se c’è da somministrare un medicinale in vena, non c’è l’infermiera che lo fa al posto tuo. Noi ce la siamo cavata benissimo”. Vorrebbe ripartire al più presto anche perché “con l’esperienza che ho acquisito negli ultimi tre anni, potrei essere più utile”.
La prima cosa che sorprende un occidentale che mette piede in queste terre è l’estrema povertà in cui vive la popolazione. “Quel poco che puoi fare diventa utilissimo. Per esempio, medicare una ferita – afferma Lia – Capita spesso che un banale taglio fatto giocando a pallone si infetti per la carenza di acqua e di igiene e porti a serie conseguenze”.
La giornata tipo dei volontari inizia con la sveglia alle 6, colazione e servizio nell’ospedale di Zambrè sino alle 12. Ritorno al villaggio, pranzo veloce e visite in ambulatorio fino a sera. “Andavamo avanti finché c’era gente. Tiravamo anche oltre le 10 – racconta Lia – I casi più estremi dovevamo mandarli in ospedale. Così sono capitati, per esempio, un bambino con la sepsi, un’infezione disseminata, o un altro con un grado di malnutrizione estremo, forse dovuto ad un tumore che gli aveva già causato la perdita della vista. In ospedale quanto meno l’avrebbero reidratato, nutrito e sottoposto ad una radiografia. Per fare una tac avrebbe dovuto recarsi nella capitale con costi proibitivi per la famiglia”. Il caso che ha più toccato Lia è stato quello di un bambino di quattro anni che è venuto da solo in ambulatorio lamentando un mal di testa: “Visitandolo ho capito che aveva la febbre alta e la malaria e gli ho dato delle compresse. E’ guarito e qualche giorno dopo è tornato con i genitori portandoci in regalo delle noccioline. Il senso di gratitudine di queste persone è molto forte”. 
Tanto dolore, eppure la popolazione è sempre sorridente. “Sembrano felici anche se non hanno nulla – afferma Pierpaolo, iscritto al II anno di Specializzazione in Neurologia – La loro indifferenza alla morte per noi risulta incomprensibile. Devono fronteggiare di continuo situazioni altamente drammatiche ed è come se la mettessero sempre in conto”. Al mercato è capitato più volte che degli estranei lasciassero i propri bambini in braccio ai volontari, come per invitarli a prenderli con sé: “Li abbiamo trovati anche per terra dietro alla porta dell’ambulatorio. All’inizio non sapevamo come comportarci, poi ci hanno spiegato che, se non avessimo fatto nulla, li sarebbero venuti a riprendere dopo 20 minuti. E così è stato”. L’esperienza africana ha trasformato profondamente Pierpaolo: “Sei immerso in una tale quantità di situazioni drammatiche che lì per lì non ti rendi neppure conto di cosa stia succedendo. Reagisci con la stessa calma della gente del posto. Quando rientri e racconti tutto agli amici, ti rendi conto che per qualche settimana hai assunto il loro stesso metro”.
Manuela Pitterà
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