Mustilli. Il Policlinico? “Un Polo della Salute”
Una spesa del personale dei Policlinici enorme. Il primo intervento del prof. Mustilli se fosse eletto Rettore.“Da economista, non guardo mai i dati così come sono, ma li vado ad analizzare. É evidente che la Seconda Università è fortemente penalizzata da una spesa del personale abnorme, rispetto a quelle che sono le presenze dei Dipendenti nei Policlinici. Questa è una cosa che il prossimo Rettore dovrà risolvere a tutti i costi, come sta accadendo alla Sapienza e a Tor Vergata. Paghiamo stipendi a persone che non lavorano per l’Università, però gli stessi hanno un certo peso quando si fanno i rating per la quota premiale. É come se partissimo per una gara dei 100 metri con un fardello addosso. L’Ateneo si sta già muovendo in questa direzione con passi concreti in Consiglio di Amministrazione ed io sono quello che ha sempre posto la questione, perché purtroppo paghiamo lo stipendio a 1.000 persone che non lavorano per l’Università. Così facendo non potremo mai essere competitivi con gli altri Atenei”. Come pensa di procedere? “Mi sto già attivando con la Regione Campania ed il Governo nazionale per porre mano allo scorporo di questi dipendenti, è una cosa delicata ma va fatta quanto prima, magari in squadra con gli altri Atenei”.
Secondo Lei, l’Ateneo su cosa deve concentrare i suoi sforzi per il prossimo futuro?
“È chiaro che dobbiamo migliorare, dobbiamo essere più bravi nella selezione delle persone, sfruttare meglio le nostre risorse, ma il punto principale è la ricerca. Va sostenuta anche attraverso sforzi di bilancio, cercando di intervenire su quei settori dove non concorriamo nei bandi internazionali, settori la cui ricerca è rilevante sia nella crescita che nella conoscenza generale. Parlo per esempio della parte umanistica dell’Ateneo, della ricerca giuridica, della ricerca di base clinico medica”.
In che modo pensa di coinvolgere e rendere più attivi questi settori?
“Dobbiamo ragionare in termini di organizzazione, vanno allestiti uffici di ricerca con giovani che sappiano parlare le lingue straniere, interagire ed assistere i professori nel tessere rapporti con altri enti di ricerca. Il docente deve fare il docente, non può essere bravo anche a gestire la parte tecnica dei progetti, si tratta di un know how che dobbiamo rafforzare al nostro interno. Poi ci sono i paesi extraeuropei, tutta la parte dell’est europea, anche lì dobbiamo essere presenti utilizzando risorse da mettere in qualche modo a rischio. Non possiamo fare i rigorosi, in maniera avveduta dobbiamo provare ad investire parte delle nostre risorse anche in tentativi che potrebbero non dare subito risultati positivi in termini economici. Penso che questa può essere la giusta reazione per un Ateneo grande ed allo stesso tempo giovane, altrimenti creiamo solo agonie”.
Cosa pensa dei nuovi Dipartimenti, sono pronti per le sfide del futuro?
“Come tutti gli Atenei italiani ci siamo adeguati alla legge Gelmini, adesso abbiamo bisogno di digerire e metabolizzare il cambiamento. L’organizzazione dipartimentale deve quanto prima far registrare un salto qualitativo, ma con omogeneità interna, bisogna saper interagire sempre di più per il bene dell’Università. Purtroppo, al momento è stata compresa solamente una lezione della nuova organizzazione dipartimentale: l’ambito decisionale. Il Dipartimento è, invece, uno strumento centrale della nuova Università e va costruito meglio con maggiore considerazione della didattica. È una cosa che va assolutamente fatta. Abbiamo applicato male certe norme, non ne abbiamo compreso fino in fondo lo spirito”.
Sono necessari interventi anche sull’offerta formativa?
“Il problema vero della didattica è quello che c’è intorno, lo scenario che si offre è di una progressiva desertificazione dei territori del Sud: giovani che se vanno, sistema produttivo disastrato, recessione economica. L’Università è una delle ultime speranze per noi del Sud per cambiare le cose, la nostra offerta formativa è la risposta a ciò che ci circonda, va data maggiore attenzione ai contenuti e occorre un maggior collegamento con il mondo del lavoro, questo vale anche per la ricerca. Non dobbiamo dimenticare la nostra funzione sociale”.
Quali sono i suoi progetti sul Policlinico di Caserta?
“Ormai vediamo la fine del tunnel e dobbiamo essere pronti a utilizzarlo come una leva di valore, non solamente per l’ex Facoltà di Medicina, ma anche per le interazioni sanitarie che altri Dipartimenti possono sviluppare. Non vedo il Policlinico di Caserta come Polo solo di Medicina, ma lo considero come una struttura che serve per far lavorare tutti in condizioni migliori. Uno spazio per interazioni con i non medici, penso a Scienze del Farmaco, Psicologia, Ingegneria. Insomma, un Polo della Salute. Significa un modo per ricondurre un po’ all’unità la Seconda Università. Dobbiamo necessariamente sviluppare la leva dell’interazione, la contaminazione progressiva, che darà sicuramente frutti in termini di ricerca e in termini economici”.
La sua attenzione si concentrerà anche sull’amministrazione?
“Il personale amministrativo rappresenta una grande sfida, penso che molto è stato fatto ma tanto si deve fare ancora. Il nuovo Rettore dovrà assecondare e sostenere una modernizzazione dell’amministrazione che dev’essere più al servizio degli obiettivi e degli sforzi di docenti e studenti. Purtroppo oggi paghiamo alcune disfunzioni che derivano in genere dall’apparato burocratico italiano ma con una maggiore esposizione a problemi di concorrenza nazionale ed internazionale. I tempi per poter ancora considerare vecchie prassi e vecchie abitudini sono finiti. Sono convinto che il cambiamento sia anche nella volontà di coloro che lavorano dentro la nostra amministrazione perché nel momento che viviamo l’Ateneo ormai deve parlare inglese, deve essere rapido nelle decisioni, avere organi agili”.
Come formerà la sua squadra?
“La squadra sarà definita nel tempo, intanto ho formato un gruppo di lavoro che mi segue in cui sono presenti tanti colleghi sia di Caserta che di Napoli. Decideremo tutto in modo collettivo. Posso anticipare che ci avvarremo anche di qualche presenza esterna, non necessariamente italiana. Questo ci aiuterà ad avere maggiore credibilità internazionale”.
C’è chi teme una sua gestione troppo aziendalistica dell’Ateneo, perché?
“Sono ordinario di Economia di impresa da quasi 15 anni, non mi vergogno della mia conoscenza e guardo con un sorriso di tipo pirandelliano chi fa distinzioni tra conoscenze, come se fosse un’impostazione razzista. Inoltre, da 8 anni sono Prorettore e so perfettamente cosa succede nei Dipartimenti umanistici, tecnici, di Ingegneria. Sono convinto di avere un’Università generalista che va sostenuta e difesa.
Se poi aziendalista vuol dire cercare di organizzare al meglio le cose, cercare di lavorare bene, sostenere la crescita della ricerca, ottimizzare l’offerta didattica rendendola sempre più al servizio della popolazione, allora siamo tutti aziendalisti. In realtà noi abbiamo a cuore l’Università e conosciamo le difficoltà del nostro lavoro. Dunque, rinvio al mittente queste considerazioni”.
Come sarà la Seconda Università del futuro?
“Oggi abbiamo un Ateneo equilibrato con strutture, personale e 29 mila iscritti. Dobbiamo mettere a regime questi valori ma soprattutto enfatizzare i punti di forza.
Costruiremo un Ateneo sempre più aderente alle aspettative degli studenti, più adeguato ai loro percorsi di crescita: più preparato, più tecnico e più bilingue per formarli al meglio per il mondo del lavoro. Sarà un Ateneo che, con opportune iniziative anche seminariali, diffonderà valori e principi che presiedano in una società civile. Non saremo solo dispensatori di conoscenze tecniche ma anche di principi etici, morali”.
(g.v.)
Secondo Lei, l’Ateneo su cosa deve concentrare i suoi sforzi per il prossimo futuro?
“È chiaro che dobbiamo migliorare, dobbiamo essere più bravi nella selezione delle persone, sfruttare meglio le nostre risorse, ma il punto principale è la ricerca. Va sostenuta anche attraverso sforzi di bilancio, cercando di intervenire su quei settori dove non concorriamo nei bandi internazionali, settori la cui ricerca è rilevante sia nella crescita che nella conoscenza generale. Parlo per esempio della parte umanistica dell’Ateneo, della ricerca giuridica, della ricerca di base clinico medica”.
In che modo pensa di coinvolgere e rendere più attivi questi settori?
“Dobbiamo ragionare in termini di organizzazione, vanno allestiti uffici di ricerca con giovani che sappiano parlare le lingue straniere, interagire ed assistere i professori nel tessere rapporti con altri enti di ricerca. Il docente deve fare il docente, non può essere bravo anche a gestire la parte tecnica dei progetti, si tratta di un know how che dobbiamo rafforzare al nostro interno. Poi ci sono i paesi extraeuropei, tutta la parte dell’est europea, anche lì dobbiamo essere presenti utilizzando risorse da mettere in qualche modo a rischio. Non possiamo fare i rigorosi, in maniera avveduta dobbiamo provare ad investire parte delle nostre risorse anche in tentativi che potrebbero non dare subito risultati positivi in termini economici. Penso che questa può essere la giusta reazione per un Ateneo grande ed allo stesso tempo giovane, altrimenti creiamo solo agonie”.
Cosa pensa dei nuovi Dipartimenti, sono pronti per le sfide del futuro?
“Come tutti gli Atenei italiani ci siamo adeguati alla legge Gelmini, adesso abbiamo bisogno di digerire e metabolizzare il cambiamento. L’organizzazione dipartimentale deve quanto prima far registrare un salto qualitativo, ma con omogeneità interna, bisogna saper interagire sempre di più per il bene dell’Università. Purtroppo, al momento è stata compresa solamente una lezione della nuova organizzazione dipartimentale: l’ambito decisionale. Il Dipartimento è, invece, uno strumento centrale della nuova Università e va costruito meglio con maggiore considerazione della didattica. È una cosa che va assolutamente fatta. Abbiamo applicato male certe norme, non ne abbiamo compreso fino in fondo lo spirito”.
Sono necessari interventi anche sull’offerta formativa?
“Il problema vero della didattica è quello che c’è intorno, lo scenario che si offre è di una progressiva desertificazione dei territori del Sud: giovani che se vanno, sistema produttivo disastrato, recessione economica. L’Università è una delle ultime speranze per noi del Sud per cambiare le cose, la nostra offerta formativa è la risposta a ciò che ci circonda, va data maggiore attenzione ai contenuti e occorre un maggior collegamento con il mondo del lavoro, questo vale anche per la ricerca. Non dobbiamo dimenticare la nostra funzione sociale”.
Quali sono i suoi progetti sul Policlinico di Caserta?
“Ormai vediamo la fine del tunnel e dobbiamo essere pronti a utilizzarlo come una leva di valore, non solamente per l’ex Facoltà di Medicina, ma anche per le interazioni sanitarie che altri Dipartimenti possono sviluppare. Non vedo il Policlinico di Caserta come Polo solo di Medicina, ma lo considero come una struttura che serve per far lavorare tutti in condizioni migliori. Uno spazio per interazioni con i non medici, penso a Scienze del Farmaco, Psicologia, Ingegneria. Insomma, un Polo della Salute. Significa un modo per ricondurre un po’ all’unità la Seconda Università. Dobbiamo necessariamente sviluppare la leva dell’interazione, la contaminazione progressiva, che darà sicuramente frutti in termini di ricerca e in termini economici”.
La sua attenzione si concentrerà anche sull’amministrazione?
“Il personale amministrativo rappresenta una grande sfida, penso che molto è stato fatto ma tanto si deve fare ancora. Il nuovo Rettore dovrà assecondare e sostenere una modernizzazione dell’amministrazione che dev’essere più al servizio degli obiettivi e degli sforzi di docenti e studenti. Purtroppo oggi paghiamo alcune disfunzioni che derivano in genere dall’apparato burocratico italiano ma con una maggiore esposizione a problemi di concorrenza nazionale ed internazionale. I tempi per poter ancora considerare vecchie prassi e vecchie abitudini sono finiti. Sono convinto che il cambiamento sia anche nella volontà di coloro che lavorano dentro la nostra amministrazione perché nel momento che viviamo l’Ateneo ormai deve parlare inglese, deve essere rapido nelle decisioni, avere organi agili”.
Come formerà la sua squadra?
“La squadra sarà definita nel tempo, intanto ho formato un gruppo di lavoro che mi segue in cui sono presenti tanti colleghi sia di Caserta che di Napoli. Decideremo tutto in modo collettivo. Posso anticipare che ci avvarremo anche di qualche presenza esterna, non necessariamente italiana. Questo ci aiuterà ad avere maggiore credibilità internazionale”.
C’è chi teme una sua gestione troppo aziendalistica dell’Ateneo, perché?
“Sono ordinario di Economia di impresa da quasi 15 anni, non mi vergogno della mia conoscenza e guardo con un sorriso di tipo pirandelliano chi fa distinzioni tra conoscenze, come se fosse un’impostazione razzista. Inoltre, da 8 anni sono Prorettore e so perfettamente cosa succede nei Dipartimenti umanistici, tecnici, di Ingegneria. Sono convinto di avere un’Università generalista che va sostenuta e difesa.
Se poi aziendalista vuol dire cercare di organizzare al meglio le cose, cercare di lavorare bene, sostenere la crescita della ricerca, ottimizzare l’offerta didattica rendendola sempre più al servizio della popolazione, allora siamo tutti aziendalisti. In realtà noi abbiamo a cuore l’Università e conosciamo le difficoltà del nostro lavoro. Dunque, rinvio al mittente queste considerazioni”.
Come sarà la Seconda Università del futuro?
“Oggi abbiamo un Ateneo equilibrato con strutture, personale e 29 mila iscritti. Dobbiamo mettere a regime questi valori ma soprattutto enfatizzare i punti di forza.
Costruiremo un Ateneo sempre più aderente alle aspettative degli studenti, più adeguato ai loro percorsi di crescita: più preparato, più tecnico e più bilingue per formarli al meglio per il mondo del lavoro. Sarà un Ateneo che, con opportune iniziative anche seminariali, diffonderà valori e principi che presiedano in una società civile. Non saremo solo dispensatori di conoscenze tecniche ma anche di principi etici, morali”.
(g.v.)