Una docente scrittrice in cattedra Licia Pizzi racconta il suo ‘Piena di Grazia’

Originaria del beneventano, territorio alle cui credenze e tradizioni arcaiche la sua scrittura fa ritorno costante, Licia Pizzi è l’autrice di “un piccolo gioiello”: così è stato definito il suo romanzo, dal titolo ‘Piena di Grazia’, pubblicato a settembre dalla casa editrice napoletana ‘A Est dell’Equatore’ e proposto dallo scrittore e critico letterario Francesco Durante tra le candidature del Premio Strega 2019. Nata a San Bartolomeo in Galdo, la prof.ssa Pizzi si laurea in Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università L’Orientale, dove oggi insegna in un Laboratorio di Italiano scritto. Il suo libro, già segnalato alla trentesima edizione del Premio Calvino e secondo classificato per la sezione Narrativa-Romanzo al Premio InediTO, è un racconto intriso di trame noir, che narra il legame con le proprie radici e l’appartenenza a una genealogia familiare, densa di rimandi al patrimonio culturale del Meridione. Un “testo sperimentale” che parla di mitologie rurali, di identità in corso di definizione, di pensieri al femminile, nel mondo in cui i sogni sono sottoposti a un fato ineluttabile. E ad alcune voci spetta il compito di trasformare il destino di un personaggio in opera letteraria. Del resto, afferma la prof.ssa Pizzi, nel suo mestiere “non si smette mai di scrivere…”.
‘Piena di grazia’, una storia del Sud. Quando e com’è nata l’ispirazione per scriverla?
“L’ispirazione alla storia nasce dalla mia terra d’origine, il Sannio. Benevento e la sua provincia, dove io ho vissuto, sono luoghi imbevuti di storie di ‘janare’, le note streghe dei terribili Sabbah intorno al Noce di Benevento e poi i miti, e la credenza popolare che anima ogni cultura del Sud”. 
Quanto c’è di sé e dei luoghi della sua memoria nel libro? Cosa, invece, di questo microcosmo narrativo rende la storia universale?
“Il romanzo nasce dunque da ciò che la terra mi ha raccontato nel tempo. La storia, che narra di un tempo senza tempo in un Sud senza nome, porta le caratteristiche di una società patriarcale cui Grazia, la protagonista – una creatura che non esiterei a definire ‘mitologica’ –, prova a sfuggire a suo modo. È una ‘eroina nera’ che tenta di sfuggire la predestinazione del Destino. Tenta insomma di evadere, di rompere, con una Storia più grande della sua, ed è questo probabilmente il tratto che rende la sua storia universale”.
Come vive il suo essere scrittrice e docente insieme? Quale veste le appartiene di più?
“Scrivere è sicuramente ciò che caratterizza la mia voce interiore, la necessità di una espressione intima che poi diventa, al termine del percorso, lettura. L’insegnamento parla invece con l’Altro in maniera diretta. Non credo di poter disgiungere i due aspetti, entrambi ‘abiti’ che mi si confanno”.
Quando ha iniziato a cimentarsi con le prime prove di scrittura? E soprattutto come e quando scrive? 
“Scrivo da quando ho memoria. Il metodo è venuto con il tempo, con l’esperienza, nel momento in cui ho intravisto la possibilità di farne una professione. In realtà, scrivo anche quando non scrivo. Se la scrittura si può interpretare come un Destino, a chi tocca il destino della narrazione ha in qualche modo il dovere di sottomettervisi”. 
Quali sono i consigli che darebbe a uno scrittore in erba per orientarsi nel mondo editoriale?
“Il consiglio, per quanto banale, è scrivere e continuare a farlo. Tenersi informati, partecipare ai concorsi letterari. Non credo esista una chiave unica, un percorso professionalizzante”.
Come ricorda gli anni de L’Orientale e com’è stato ritornarci dopo? Sognava già allora di diventare una scrittrice?
“Gli anni a L’Orientale sono stati splendidi, formativi e ricchi di esperienze. L’Orientale è e resta casa. Durante gli anni universitari ho pubblicato il mio primo racconto intitolato ‘L’Amante’ in raccolta, insieme ad altri colleghi e amici”.
Cosa ha rappresentato per lei la candidatura allo Strega?
“Essere proposti per il Premio di letteratura più importante d’Italia è estremamente lusinghiero. Posso dire che ha rappresentato un primo traguardo trasformativo, soprattutto per la percezione del sentirmi ‘scrittrice’ a tutti gli effetti”.
In quali forme e stili ha scelto di narrare il Sud? Crede che la letteratura rispetto alle altre arti offra maggiori possibilità di sperimentazione?
“Il Sud che io narro è muto seppur pieno di parole, immobile ma col desiderio di trasformarsi, preda e carnefice. Ho tentato un approccio non classico, pur nella narrazione classica di una storia meridionale. Nessun dialogo, pochi interrogativi espressi, come se tutto fosse lì, senza necessità di doverne parlare o doversi chiedere. La letteratura per me è capace di sperimentare allo stesso modo delle altre arti, di trovare una sua voce peculiare capace di staccarsi dalle forme canoniche”.
Ci sono libri che le hanno cambiato la vita? A quali scrittori continua a fare tutt’oggi riferimento?
“Molti libri, forse troppi per dare solo a uno l’intera ‘responsabilità’ della mia scelta, e molte scrittrici. La Woolf, un ovvio caposaldo, ma anche Ali Smith, Joyce Carol Oates, Christa Wolf, Alice Munro e Agota Kristof, solo per citarne alcune. Tra le italiane, amo molto Wanda Marasco”. 
Una citazione o un passo del suo libro che le piacerebbe citare in fine di intervista?
“Il motto che cadenza l’intero romanzo, il monito: «‘Razia fa’ ‘a bbrava»”.
Sabrina Sabatino
 
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