Valutazione: se cambiano gli indicatori, le Università del Sud non più Cenerentole del Paese

Una critica ragionata e costruttiva sulla Riforma Universitaria nel numero monografico della rivista di settore “Scuola Democratica – Learning for Democracy” (edita da “Il Mulino”) di recente pubblicazione. È l’insieme dei contributi dall’approccio interdisciplinare, alcuni dei quali presentati al convegno organizzato nel 2015 dall’Università Vanvitelli dal titolo “Il sistema universitario. È già buona università?”, ad opera di studiosi, tra cui sociologi ed economisti, che rimarcano i punti deboli e le mancanze presenti nel testo di legge n. 240 del 2010, meglio noto con il nome Riforma Gelmini. Interventi  preceduti da un’introduzione, concettualmente molto densa, scritta a quattro mani dai professori Francesco Pastore e Maria Rosaria Carrillo, docenti di Economia Politica, il primo alla Vanvitelli, la seconda alla Parthenope. Oltre a sintetizzare e a presentare, dal punto di vista della struttura e del contenuto, i saggi che seguono, il prologo propone in particolare un contributo interpretativo da parte dei due docenti universitari sull’attuale sistema di distribuzione delle risorse nelle università italiane e sulla scelta degli indicatori per la valutazione della qualità della ricerca. “La tesi prevalente presente nel nuovo numero della rivista riguarda soprattutto i nuovi sistemi di distribuzione delle risorse – spiega il prof. Pastore – che effettivamente stanno minando l’omogeneità dell’offerta di capitale umano e di ricerca scientifica a favore di alcune università localizzate in precise aree del nostro Paese, quelle del Settentrione, sulla base di fattori perversi ed indicatori che risultano insufficienti, gestiti da un’apposita Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario della Ricerca”. Il sistema di distribuzione delle risorse oggi si basa da un lato sul principio di premialità secondo le performance in termini di didattica e ricerca per cui le sedi con i parametri Anvur migliori ricevono più finanziamenti, dall’altro sulla riduzione dei finanziamenti pubblici che vengono sostituiti dai fondi privati. Ecco che nella fase di redistribuzione dei finanziamenti tra le varie sedi universitarie alcune risultano fortemente sottofinanziate. “La riforma ha sacrificato l’omogeneità sostanziale del sistema universitario a livello nazionale senza premiare realmente l’eccellenza – ribadisce il professore – perché la misurazione della qualità della didattica e della ricerca viene effettuata sulla base di fattori che solo in parte sono correlati con essa o su fattori che derivano essenzialmente dalle condizioni economiche e sociali dei territori”. Gli effetti sono scontati e preannunciati tra le righe già prima dell’attuazione della riforma: è ovvio che le università del Nord abbiano un grandissimo vantaggio in questa definitiva polarizzazione delle risorse e dei finanziamenti che non risulta in realtà positiva per l’intero Paese e per il futuro di tutte le università italiane. “Se si guardano i risultati, i valori aggiunti e non i punti di partenza ed arrivo, non si colgono davvero le qualità del sistema universitario – aggiunge il prof. Pastore – ma solo condizioni di vantaggio che derivano dal contesto economico e sociale più sviluppato. Il risultato è una polarizzazione delle risorse a favore dei poli già favoriti dallo sviluppo territoriale circostante”. E non è affatto un bene. “La polarizzazione non aumenta necessariamente l’efficienza del sistema della ricerca – si legge nell’introduzione – ma può generare congestionamento anziché aumento della produttività, aumento delle disuguaglianze e trappole della povertà, sviluppo economico diseguale e tassi di crescita di lungo periodo del reddito pro-capite minori per l’intero Paese, mercato del lavoro con una maggiore segmentazione territoriale e dunque con una più elevata probabilità di mismatch (ovvero uno squilibrio tra domanda e offerta)”. Gli effetti sono negativi ovviamente anche sul mercato del lavoro. Di fatto nelle aree arretrate, le università hanno minori possibilità di implementare attività di networking con le imprese e con altre istituzioni pubbliche e private: questo implica una minore efficacia del job-placement. “Se gli indicatori misurano la qualità della didattica attraverso le attività del job-placement e la probabilità di occupazione dei laureati a 1 anno o 2 dal conseguimento della laurea, è talmente ovvio che le università che si trovano in un contesto territoriale meno sviluppato siano totalmente svantaggiate”, continua il professore. I contributi non sono critiche fine a se stesse ma propongono delle soluzioni, dei suggerimenti pratici e concreti che possono essere sintetizzati in alcuni punti fondamentali: una valutazione delle università basata su quanto fatto nel periodo post-riforma tenendo conto dei punti di partenza, criteri che non cambino strada facendo ma che consentano di programmare le attività di pubblicazione, indicatori che dipendano dalle università stesse e non dal contesto territoriale, clausole di salvaguardia che impediscano oscillazioni drastiche nella distribuzione dei fondi, l’uso di oltre 22 indicatori, indicati dal Miur in passato, e l’eliminazione dell’indicatore VQR dipartimentale (Valutazione della Qualità della Ricerca) pensato per il raggiungimento di standard minimi, infine tener conto della qualità della didattica oltre che della ricerca perché ha una ricaduta determinante sulla formazione degli skills. “Non siamo dei reazionari – precisa il docente – non ci lamentiamo e basta, ma con dei dati alla mano chiediamo semplicemente precisione e trasparenza, portando avanti le nostre tesi e considerazioni che provengono da uno studio ponderato della materia. Perché crediamo che se cambiano gli indicatori per la valutazione e si riformula il sistema di distribuzione delle risorse e dei finanziamenti le università del Sud, oggi considerate le Cenerentole del mondo in uno scenario dove vige la legge del più forte, possano giocarsela alla pari”. 
Claudia Monaco
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