Lo stato della ricerca in Italia: “i nostri mezzi sono vergognosi rispetto a quelli dei colleghi all’estero”
“Questo studio, il primo nel suo genere, potrebbe essere un filo d’Arianna che racconta delle evoluzioni biochimiche sottese alle traiettorie psichiatriche che si connotano in malattie come la schizofrenia. È un punto di partenza fondamentale e bisogna continuare con ulteriori verifiche su numerosi altri pazienti prima di portare alla comunità scientifica e alla gente un risultato confermato”. Il prof. Alessandro Usiello, direttore del Laboratorio di Neuroscienze Traslazionali del CEINGE e Ordinario di Biochimica Clinica alla Vanvitelli (Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali, Biologiche e Farmaceutiche), rifugge da qualsiasi sensazionalismo pur sottolineando l’importanza del proprio studio, senz’altro pionieristico, che potrebbe dare un impulso sostanziale alla diagnosi precoce della schizofrenia grazie ad alcune spie nel sangue.
Gli ultimi risultati della ricerca infatti, pubblicati di recente sulla rivista Nature e riportati con clamore da diversi media, sono solo l’ultimo tassello di un progetto iniziato nel 2004, anno in cui Usiello, tornato dalla Svezia, ha aperto la struttura della quale è direttore grazie al prof. Franco Salvatore, “un’eminenza scientifica della Campania”.
Sulle pagine di Ateneapoli il docente entra nel merito dello studio condotto e, oltre a lasciarsi andare ad una riflessione sullo stato della ricerca in Italia, vittima di un sottofinanziamento ormai cronico – “i nostri mezzi sono vergognosi rispetto a quelli dei colleghi all’estero” – ricorda ciò che l’ha spinto a lanciarsi in questo mondo: “una grande curiosità nel comprendere i meccanismi cerebrali sottesi alle gioie e alle sofferenze”.
Il D-aspartato
Professore, facciamo chiarezza: ci racconta i passaggi salienti di questa ricerca che sta portando avanti ormai da anni?
“Nel 2006 ho iniziato a studiare il significato biologico di una classe di molecole, i D-amminoacidi, definita in passato innaturale o atipica. Questo perché tutti gli amminoacidi che noi usiamo sono considerati mattoncini delle proteine; diversamente i D-amminoacidi sono amminoacidi enigmatici, perché non fanno sintesi proteica ma sono stati confinati al mondo procariote dei batteri. Pertanto, la scoperta di alcuni scienziati giapponesi dell’esistenza dei D-amminoacidi nel cervello umano, soprattutto nelle fasi del neurosviluppo, cioè dello sviluppo prenatale, ha suscitato un grande clamore biologico perché queste molecole potevano avere un ruolo circoscritto alla comunicazione neuronale.
Ed è quello che noi abbiamo iniziato a caratterizzare nel corso di questi 15 anni identificando nelle proprietà biologiche di un D-amminoacido, ovvero il D-aspartato, che si è capito essere altamente arricchito nella corteccia cerebrale umana solo durante la vita embrionale. Quindi, dal momento che malattie del neurosviluppo come schizofrenia e autismo sono patologie psichiatriche che però vedono la loro esistenza in alterazioni precoci durante lo sviluppo del cervello, ci siamo chiesti se e in che modo il metabolismo del D-aspartato potesse determinare una modulazione dei processi nervosi connessi proprio alla schizofrenia”.
E a quel punto il suo team è passato a studi su cervelli post portem…
“Esatto. Nel corso di questi anni abbiamo condotto studi post sul cervello di pazienti con schizofrenia post mortem ottenuti dalla Brain Bank del King’s College di Londra e un istituto di Los Angeles. Il mio collaboratore, prof. Francesco Errico della Federico II, ed io abbiamo scoperto, come ipotizzavamo, che esiste una deregolazione del metabolismo proprio di questo D-amminoacido, il D-aspartato. È un punto importante perché è stata la base che ci ha portato alle ultime ricerche. E infatti successivamente abbiamo confermato una relazione tra le alterazioni schizofreniche e il metabolismo del D-aspartato, anche in collaborazione con il prof. Andrea De Bartolomeis, psichiatra della Federico II.
Nel recente studio, di un paio di mesi fa, abbiamo riportato che questa molecola, il D-aspartato, era alterata nei pazienti studiati. Poi, con i professori di Psichiatria Antonio Rampino, prima firma dello studio, e Alessandro Bertolino dell’Università di Bari, abbiamo esteso l’osservazione ad una casistica di 251 soggetti, suddivisi in gruppi: 100 sani, 82 con schizofrenia cronica e un ulteriore gruppo di soggetti a rischio della manifestazione psicotica o che ne avessero già data qualcuna. E questa è la vera novità: abbiamo voluto investigare delle variazioni nel siero di molecole che potessero indicare l’evoluzione della patologia. Probabilmente è quel che abbiamo iniziato a trovare, cioè una molecola che può identificare biochimicamente l’evoluzione di questo stato della psicosi”.
Il carattere pionieristico del suo lavoro sottolinea l’importanza della ricerca. Eppure c’è il rovescio della medaglia: in un suo vecchio post su Linkedin affermava che i ricercatori in Italia sono trattati come miserabili. Lo pensa ancora?
“Purtroppo, noi italiani per fare ricerca dobbiamo fare gli straordinari di giorno e di notte, i nostri mezzi sono vergognosi rispetto a quelli dei colleghi all’estero”.
“Non sappiamo come dare futuro ai ricercatori che stanno facendo scienza”
Per esempio?
“Mi riferisco ai finanziamenti per le ricerche, al riconoscimento economico – un PhD (dottorando) italiano prende poco più di mille euro, un RTDA (ricercatore a tempo determinato) poco più di 1700 euro, cifre neanche da prendere in considerazione nel resto d’Europa. In Italia si ha sempre la sensazione che la nostra sia considerata solo una missione e non un vero lavoro. E devo dire che la situazione sta peggiorando: non sappiamo più come stabilizzare i nostri giovani dopo il Dottorato di ricerca; li formiamo, spendiamo soldi ed energie, ma li vediamo partire sempre più spesso. Mi lasci dire che la ricerca in Italia ha anche un altro problema”.
Quale?
“Salvo rare eccezioni, i finanziamenti non sono mai costanti. Bisogna ringraziare il Pnrr – io faccio parte del famoso progetto MNESYS, un Partenariato Esteso per la tematica Neuroscienze e Neurofarmacologia che comprende anche la Vanvitelli – ma come capi di laboratorio siamo preoccupatissimi perché, terminati quei fondi, non sappiamo come dare futuro ai ricercatori che stanno facendo scienza. C’è molta angoscia”.
E quindi gli studenti che hanno l’ambizione della ricerca in Italia devono cambiare strada o andare direttamente all’estero?
“La prima cosa da dire è che un ricercatore deve esporsi alla ricerca internazionale, al di là di ogni necessità. Ad oggi ho tre dottorande, una italiana e due straniere, rispettivamente da Iran e Pakistan. A fine percorso farò in modo che vadano a formarsi ulteriormente all’estero per un possibile ritorno. Il punto vero è un altro: saremo in grado di riabbracciarle dando loro un futuro?”.
Claudio Tranchino
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Ateneapoli – n. 1 – 2025 – Pagina 7