Sono siciliana, sono una studentessa fuorisede, ho una camera in affitto in centro storico a Napoli e non avrei mai pensato quest’anno di brindare e scambiarmi gli auguri con i vicini del palazzo di fronte, 750 chilometri lontana da casa mia.
Mi sono trasferita in questa città quattro anni fa, per poter studiare lingua araba a L’Orientale e da subito ho capito che questa esperienza non sarebbe stata sempre facile. Non sono un tipo di persona particolarmente affettuosa, non uno di quelli che chiamano i familiari più volte al giorno per colmare la distanza – al contrario – ma sono una persona piuttosto abitudinaria e con una routine scandita da lezioni, sessioni d’esame e vacanze a casa, perché le vacanze all’estero o in qualche altra città italiana sono bellissime, ma solo dopo aver trascorso almeno una settimana ‘giù’ per riprendere le energie ed affrontare i successivi tre mesi lontano. Le festività di solito scandiscono i giorni in cui si ritorna piacevolmente alla base, con la mente già alle future ore di relax su un comodo divano e pregustando tutto ciò che di buono riassaporerai.
L’anno delle feste in videochiamata
Non quest’anno però, che invece verrà ricordato come l’anno delle feste in videochiamata, che sia stata la seduta di laurea di un amico, il compleanno di tua sorella o il barbecue di Pasquetta.
Sembra banale pensare a quanto ci manchino le cose semplici e quotidiane quando non possiamo averle.
Personalmente ho avuto la fortuna di non rimanere in questo isolamento forzato da sola, ma trascorro queste settimane in compagnia delle ragazze che condividono con me la casa: quattro studentesse, quattro compagne d’avventura anche prima della quarantena e che in quarantena si sono reinventate cuoche provette, pur di non rimanere 38 giorni, ad oggi 15 aprile, senza pizza. Alla fine ci si rifugia sempre nel cibo, che sia per celebrare qualcosa o per risollevare il morale, che poi nel nostro caso vale sia per l’uno che per l’altro motivo. Il pranzo di Pasqua andava fatto, come anche il barbecue di Pasquetta, terrazzo a disposizione e meteo permettendo. E così, tra una lasagna, la salsiccia sulla brace e delle patate al forno, ci siamo ritrovate con due dita di vino nei bicchieri a gridare agli studenti del palazzo di fronte “Buona Pasqua!”, e ai ragazzi del terrazzino di fianco, e a quella coppietta affacciata al balcone poco distante, “Buona Pasqua ragazzi!”.
Tute e pantofole
Il nostro palazzo dà su una piccola piazza su cui si affacciano numerose case, tutte abbastanza vicine tra loro, ed è stato divertente notare come da ognuno di quegli appartamenti provenisse della musica, messa quanto più ad alto volume possibile per quello che delle casse da interno riuscissero a fare. Ridevamo e brindavamo sulle note di canzoni allegre, così da cercare di essere un po’ più di buon umore anche noi. Per l’occasione abbiamo anche deciso di lasciare nell’armadio le tute, che ormai sembrano le divise di questi mesi in casa, e abbiamo rispolverato gli abiti più eleganti e delle scarpe che non fossero pantofole; abbiamo pettinato i capelli a dovere, rimesso del mascara sulle ciglia e leggermente colorato le guance con le polveri rosate, perché non importa dove fossimo o dove saremmo volute essere, si trattava comunque di un giorno di festa. Post pranzo è iniziato il ciclo di videochiamate alle famiglie, lo scambio di auguri, i discorsi rassicuranti della serie “sì, mamma, stiamo tutte bene, abbiamo mangiato cose buone anche noi, sì la lasagna alla fine è riuscita, stai tranquilla. Mi manchi anche tu” con l’obbligo per tutte di farsi vedere anche solo per qualche secondo nei cellulari di quei familiari distanti che senza la conferma visiva quasi non credono a ciò che dici.
Tutto sommato la domenica è passata piacevolmente tra le chiacchiere, la musica e l’apertura delle uova di Pasqua, e nonostante l’assurdità di questo periodo la parola chiave “insieme” ha avuto un significato anche adesso.
Il giorno dopo, però, il quartiere è piombato nel silenzio: nessuno sui balconi, niente brindisi tra vicini, niente musica dalle case di quegli sconosciuti. Il nostro minuscolo barbecue lo abbiamo acceso lo stesso, le tradizioni vanno sempre onorate, eppure niente sembrava giusto, niente sembrava essere al suo posto. Io al mio posto non lo ero di certo, perché, come è vero che il giorno di Pasqua è a casa con la famiglia, è altrettanto vero che la Pasquetta la condivido con lo stesso ragazzo da sei anni, e senza di lui la carne era un po’ meno saporita, le battute un po’ meno divertenti e la Pasquetta un po’ meno Pasquetta e più un giorno come un altro. Dal balcone della mia camera riuscivo a vedere un ragazzo che il giorno prima scherzava e ballava a distanza con noi seduto alla scrivania a studiare. Insomma, credo che a vivere quel giorno con meno entusiasmo e meno positività del precedente non ero solo io.
Ho riflettuto molto sulla sensazione del sentirsi in gabbia di queste settimane, e certo non dipende solo dal fattore fisico del dover rimanere a casa, ma da quello psicologico, piuttosto, del sapere di non poter uscire. Le sessioni d’esame ci hanno temprato dal primo anno alla clausura “da studio”, siamo ormai da anni abituati a cambiare tuta in base al giorno della settimana, eppure nessuna sessione d’esame sembra paragonabile alla pesantezza di queste ore tutte uguali, di questi ritmi quotidiani che finiscono per accavallarsi, per confondersi, segnati da occhi gonfi per l’insonnia della notte e la totale mancanza di concentrazione del giorno. Fuori non vedi quasi nulla muoversi, eppure senti che tutto continua a scorrere: le lezioni si fanno, seppure online, i professori lasciano montagne di materiale da studiare, gli esami si devono preparare lo stesso. Le festività arrivano, in qualche modo festeggi, e ti ritrovi al mercoledì dopo Pasqua con la sensazione che niente sia successo davvero, che non si sia trattato di un giorno così diverso dagli altri.
Quest’anno non distingueremo tra 25 aprile in campagna e Primo maggio al mare, non controlleremo morbosamente le previsioni sperando che non piova, non ci preoccuperemo più per il traffico che ci sarà su strada. Non è niente di grave, tutte cose superabili, specialmente se paragonate a tutto il resto che accade ogni giorno in questo periodo, eppure ci sembrano delle mancanze difficili da gestire e dolorose. Lo è per chi è chiuso in casa con la propria famiglia, lontano dagli amici o dal proprio partner, ma credo lo sia un pochino di più per chi, mai come adesso, dalla famiglia ci tornerebbe correndo.
Tutto finirà, ad un certo punto, e torneremo a casa con il cuore leggero come non lo sentivamo da tempo, come da tempo non capivamo quanto prezioso sia il poter tornare a casa, riabbracciare chi vuoi bene, prendere una birra al pub con gli amici. Torneremo a condividere con gli altri momenti più o meno importanti, riprenderemo a studiare in biblioteca con i colleghi preparando gli esami e disperandoci per quello che non capiamo. Riavremo le lezioni in quelle aule che spesso odiamo perché vecchie, troppo piccole o troppo grandi, torneremo a fare la fila per i ricevimenti, con il nodo in gola per l’ansia, ma la gioia che ti pizzica la pelle perché hai quasi finito di scrivere la tesi. E si tornerà a laurearsi nelle grandi aule decorate di Palazzo Du Mesnil, sul mare, davanti agli occhi lucidi di mamma e papà, con i telefoni in mano solo per poter conservare quel momento per sempre. Tornerò a mangiare la pizza la sera prima di tornare in Sicilia, salutando la mia famiglia napoletana in attesa di riabbracciare quella sicula. Torneremo a fare tutto questo e di più, speriamo meglio e con più gratitudine e consapevolezza. E nel frattempo non ci resta che pazientare.