Per oltre un secolo, fino alla definitiva chiusura conseguente alla legge Basaglia, l’Ospedale Psichiatrico Leonardo Bianchi è stato considerato a Napoli una “città dei matti”. Luogo di dolore, di sofferenza, perfino di tortura in alcuni casi. Area separata dal resto della città, delimitata da un muro e quasi invisibile agli occhi perfino di chi abitava in quei paraggi.
Da tempo, ormai, si discute su ipotesi di nuove destinazioni, di recupero, di valorizzazione di un complesso che conta circa trenta padiglioni. Tema affascinante, impegnativo, delicato, sul quale hanno lavorato negli ultimi due anni anche 126 studenti del Corso di Laurea Magistrale in Architettura, guidati dalla regia della prof.ssa Angela D’Agostino, che insegna Composizione Architettonica. “Ho proposto – racconta – di lavorare su una grande area dismessa che è ubicata nei pressi dell’aeroporto di Capodichino e che da lì è accessibile, ma che si trova in posizione sopraelevata rispetto a quella zona. Un complesso, insomma, che è in città, ma che appare da essa separato”. Prosegue la docente: “Un luogo da recuperare e per il quale immaginare nuove funzioni, ma del quale va conservata anche la memoria”.
Il lavoro degli studenti si è svolto in varie fasi: sopralluoghi ed elaborazioni progettuali. “Diciotto tra gli allievi che erano particolarmente motivati e che si erano appassionati al lavoro – aggiunge la docente – hanno poi svolto un’attività di approfondimento. Hanno effettuato sopralluoghi più approfonditi, hanno scattato foto e preparato schizzi. Hanno tirato fuori quaderni che raccontano il loro percorso di approfondimento ed hanno rivisto i progetti, alla luce della nuova esperienza”.
Dall’insieme delle attività dei 126 allievi, è emerso un progetto articolato su alcuni punti cardine: “abbiamo ipotizzato di realizzare un secondo accesso al Bianchi, dal lato della chiesa. Quando l’Ospedale psichiatrico era in attività, i pazienti percorrevano quel tragitto solo dopo morti. Ci è parso utile immaginare questo secondo varco perché permetterebbe di creare un collegamento più immediato tra la città e la cittadella del Bianchi. È una ipotesi che si muove in coerenza col progredire della rete infrastrutturale, in particolare con la previsione di una nuova stazione della Linea 1 della Metropolitana che sarà realizzata proprio in prossimità dell’aeroporto di Capodichino”. Per quanto concerne le funzioni da assegnare ai padiglioni, il progetto presuppone che siano varie: “Per motivi gestionali, perché potrebbe risultare più agevole la conduzione di un’area tanto vasta, e perché, in fondo, anche nel vecchio manicomio c’era una distribuzione di attività diverse all’interno dei vari spazi. Cucina, sartoria, agricoltura, tipografia, fabbrica di mattonelle. Gli internati che erano in condizione di farlo lavoravano”. Parte qualificante del progetto sarà la trasformazione di un padiglione in un percorso della memoria, che dovrà raccontare a chi lo visiti quello che fu la realtà manicomiale, cosa accadeva negli spazi destinati ai sofferenti psichici, quale era la loro quotidianità ed in che modo quelle vite squassate dalla sofferenza cercavano, a volte, di stabilire relazioni, contatti, apparenze di “normalità”. Foto, documenti, oggetti personali degli internati aiuteranno ad entrare nella vita quotidiana di chi fu recluso al Leonardo Bianchi. Racconta la docente: “Questo percorso della memoria dovrebbe essere collocato in prossimità del nuovo accesso, dove saranno peraltro demoliti vari corpi di fabbrica incoerenti. Il padiglione della memoria sarà una sorta di alter ego dell’edificio di accoglienza, che adesso ospita archivi e la biblioteca”.
Da tempo, ormai, si discute su ipotesi di nuove destinazioni, di recupero, di valorizzazione di un complesso che conta circa trenta padiglioni. Tema affascinante, impegnativo, delicato, sul quale hanno lavorato negli ultimi due anni anche 126 studenti del Corso di Laurea Magistrale in Architettura, guidati dalla regia della prof.ssa Angela D’Agostino, che insegna Composizione Architettonica. “Ho proposto – racconta – di lavorare su una grande area dismessa che è ubicata nei pressi dell’aeroporto di Capodichino e che da lì è accessibile, ma che si trova in posizione sopraelevata rispetto a quella zona. Un complesso, insomma, che è in città, ma che appare da essa separato”. Prosegue la docente: “Un luogo da recuperare e per il quale immaginare nuove funzioni, ma del quale va conservata anche la memoria”.
Il lavoro degli studenti si è svolto in varie fasi: sopralluoghi ed elaborazioni progettuali. “Diciotto tra gli allievi che erano particolarmente motivati e che si erano appassionati al lavoro – aggiunge la docente – hanno poi svolto un’attività di approfondimento. Hanno effettuato sopralluoghi più approfonditi, hanno scattato foto e preparato schizzi. Hanno tirato fuori quaderni che raccontano il loro percorso di approfondimento ed hanno rivisto i progetti, alla luce della nuova esperienza”.
Dall’insieme delle attività dei 126 allievi, è emerso un progetto articolato su alcuni punti cardine: “abbiamo ipotizzato di realizzare un secondo accesso al Bianchi, dal lato della chiesa. Quando l’Ospedale psichiatrico era in attività, i pazienti percorrevano quel tragitto solo dopo morti. Ci è parso utile immaginare questo secondo varco perché permetterebbe di creare un collegamento più immediato tra la città e la cittadella del Bianchi. È una ipotesi che si muove in coerenza col progredire della rete infrastrutturale, in particolare con la previsione di una nuova stazione della Linea 1 della Metropolitana che sarà realizzata proprio in prossimità dell’aeroporto di Capodichino”. Per quanto concerne le funzioni da assegnare ai padiglioni, il progetto presuppone che siano varie: “Per motivi gestionali, perché potrebbe risultare più agevole la conduzione di un’area tanto vasta, e perché, in fondo, anche nel vecchio manicomio c’era una distribuzione di attività diverse all’interno dei vari spazi. Cucina, sartoria, agricoltura, tipografia, fabbrica di mattonelle. Gli internati che erano in condizione di farlo lavoravano”. Parte qualificante del progetto sarà la trasformazione di un padiglione in un percorso della memoria, che dovrà raccontare a chi lo visiti quello che fu la realtà manicomiale, cosa accadeva negli spazi destinati ai sofferenti psichici, quale era la loro quotidianità ed in che modo quelle vite squassate dalla sofferenza cercavano, a volte, di stabilire relazioni, contatti, apparenze di “normalità”. Foto, documenti, oggetti personali degli internati aiuteranno ad entrare nella vita quotidiana di chi fu recluso al Leonardo Bianchi. Racconta la docente: “Questo percorso della memoria dovrebbe essere collocato in prossimità del nuovo accesso, dove saranno peraltro demoliti vari corpi di fabbrica incoerenti. Il padiglione della memoria sarà una sorta di alter ego dell’edificio di accoglienza, che adesso ospita archivi e la biblioteca”.
Il padiglione della memoria
Il progetto non prevede un quadro economico. Sotto questo profilo, però, un aiuto consistente potrebbe arrivare da un altro gruppo di studenti di Architettura che lavora sul Leonardo Bianchi, quello del Laboratorio di sintesi del quinto anno della prof.ssa Roberta Amirante. “Lì – sottolinea la prof.ssa D’Agostino – c’è anche una parte di Estimo e potrebbe essere di grande aiuto per capire la fattibilità economica del progetto che è stato redatto dai miei studenti del secondo anno”.
Tra questi, Giovangiuseppe Vannelli, 21 anni, che ha partecipato anche alla fase di approfondimento della quale parlava in precedenza la docente di Composizione Architettonica. Racconta: “Il Leonardo Bianchi è stato una scoperta ed un incontro molto coinvolgente. Ho lavorato su un tema progettuale con una fortissima carica emotiva. Un luogo non banale, segnato da vicende e vite sofferte per più di un secolo. Lì dentro, ora, si potrebbe fare di tutto e credo che l’ipotesi multifunzionale sia certamente quella più coerente con la diversità delle funzioni che furono collocate nel Bianchi durante gli anni nei quali ospitò i pazienti. Tuttavia, l’elemento qualificante del progetto è certamente il padiglione della memoria. Una torre che potrebbe diventare anche una interazione con il resto della città, dalla quale la struttura è separata da un muraglione”.
Piero Zizzania, un altro dei partecipanti al gruppo di lavoro sul Bianchi, racconta come si sono svolte le attività: “Ci siamo concentrati inizialmente sul senso del luogo, su quello che era stato e sull’importanza di trasmettere il ricordo di quella esperienza all’esterno. Abbiamo effettuato sopralluoghi, analizzato il contesto storico ed urbano, abbiamo confrontato la realtà del Leonardo Bianchi come struttura manicomiale in relazione ad altre, in particolare al manicomio di Voghera. È stata una esperienza davvero molto formativa. Mi piacerebbe, ora, che si realizzasse qualcosa del nostro progetto”. Conclude: “Alla fine del lavoro e del modulo di approfondimento è accaduta una cosa stranissima. Mi sono accorto che mi ero affezionato a quel posto. Mi piacerebbe che tornasse a vivere, che diventasse parte della città, luogo di incontri, di cultura, di musica, di attività economiche e di socialità. Sarebbe forse anche un modo per riscattarlo dai suoi trascorsi di dolore e sofferenza”.
Fabrizio Geremicca
Tra questi, Giovangiuseppe Vannelli, 21 anni, che ha partecipato anche alla fase di approfondimento della quale parlava in precedenza la docente di Composizione Architettonica. Racconta: “Il Leonardo Bianchi è stato una scoperta ed un incontro molto coinvolgente. Ho lavorato su un tema progettuale con una fortissima carica emotiva. Un luogo non banale, segnato da vicende e vite sofferte per più di un secolo. Lì dentro, ora, si potrebbe fare di tutto e credo che l’ipotesi multifunzionale sia certamente quella più coerente con la diversità delle funzioni che furono collocate nel Bianchi durante gli anni nei quali ospitò i pazienti. Tuttavia, l’elemento qualificante del progetto è certamente il padiglione della memoria. Una torre che potrebbe diventare anche una interazione con il resto della città, dalla quale la struttura è separata da un muraglione”.
Piero Zizzania, un altro dei partecipanti al gruppo di lavoro sul Bianchi, racconta come si sono svolte le attività: “Ci siamo concentrati inizialmente sul senso del luogo, su quello che era stato e sull’importanza di trasmettere il ricordo di quella esperienza all’esterno. Abbiamo effettuato sopralluoghi, analizzato il contesto storico ed urbano, abbiamo confrontato la realtà del Leonardo Bianchi come struttura manicomiale in relazione ad altre, in particolare al manicomio di Voghera. È stata una esperienza davvero molto formativa. Mi piacerebbe, ora, che si realizzasse qualcosa del nostro progetto”. Conclude: “Alla fine del lavoro e del modulo di approfondimento è accaduta una cosa stranissima. Mi sono accorto che mi ero affezionato a quel posto. Mi piacerebbe che tornasse a vivere, che diventasse parte della città, luogo di incontri, di cultura, di musica, di attività economiche e di socialità. Sarebbe forse anche un modo per riscattarlo dai suoi trascorsi di dolore e sofferenza”.
Fabrizio Geremicca