A Medicina il posto per studiare è una questione d’ingegno

Una barella zoppa, una pedana di legno e un pizzico di inventiva. In poche parole: un banco. Il lavoro di innovativo artigianato porta la firma di Salvatore Frecentese, studente del primo anno che ha Odontoiatria nel futuro e doti degne di Archimede Pitagorico nel presente. La sua idea è diventata presto un fenomeno mediatico: “da quando mi sono messo qui mi hanno già fatto nove foto”. Di necessità, virtù. La carenza dei posti studio è uno dei problemi più dibattuti a Medicina. Una questione molto sentita dagli studenti, che di questo hanno parlato recentemente anche con i propri rappresentanti nel corso di un’assemblea tenutasi all’edificio 20. Se ne parla e, nel frattempo, ci si adatta. Salvatore si è guardato intorno e ha trovato la sua soluzione: “ci stava la barella. Questa – indica la pedana di legno – era messa per terra. Così, le ho assemblate. Ho fatto tutto di nascosto”. Non è mancato un piccolo inconveniente: “mi sono dovuto spostare. Precedentemente la struttura era ancora più curata”. Con un pizzico di orgoglio mostra una foto della sua creatura prima che subisse lo sfratto. Nel tragitto sono stati persi due elementi: una scatola, che permetteva alla gamba della barella priva di una rotella di recuperare i centimetri in meno rispetto alle colleghe, e una bottiglia di plastica che fungeva da “ammortizzatore per non far muovere il tavolo”. Il linguaggio è chiaro. Da barella a tavolo. In sintesi, un esempio di quando l’arte di arrangiarsi porta a dei risultati che riescono a superare la norma: “la userò sempre. Messo così, ho meno problemi di schiena e le cose non scivolano”. A studio concluso, Salvatore dirà solo arrivederci alla sua inconfondibile struttura. La paternità difficilmente potrà essere messa in discussione: “ho messo il mio nome, poi ci farò qualche disegno. Inizierò a personalizzarla per lasciarla nell’aula occupata”. Un’aula che, tra le varie funzioni, svolge anche quella di magazzino, raccogliendo tavoli e sedie di tutti i ragazzi che si sistemano con i libri nei corridoi del piano terra dell’edificio 20. Tavolini pieghevoli di legno, di plastica e da picnic le soluzioni meno originali, ma altrettanto efficaci, adottate dagli altri studenti. Tra questi, Gennaro, al suo secondo anno di Medicina: “a causa dei lavori non c’erano più posti a sedere a sufficienza. Quindi abbiamo dovuto provvedere da soli portandoci tavolini e sedie da casa”. Il problema, a suo avviso, non riguarda solo gli studenti: “i professori si devono adattare alle esigenze dell’università. Anche loro non sono soddisfatti di come studiamo e seguiamo i corsi”. Una situazione che potrebbe peggiorare con l’aumento del numero degli iscritti dovuto ai ricorsi seguiti ai test. Proprio su questo, prosegue: “se mi dici ricorsista penso a ingiustizia, perché io non sono entrato subito a Medicina. Ho dovuto sudare tre anni. Pur potendo fare ricorso in passato, per dignità non l’ho voluto fare”. Quella dei posti a sedere è una questione che, a quanto pare, non ha bisogno di aiuti per diventare motivo di scontro, come sottolineato da Davide, studente del terzo anno: “dato che i posti non ci sono, la gente fa di tutto per occuparne uno. Questo crea competizione tra noi”. Insiste sui problemi strutturali un suo collega, Michele, che non nasconde un pizzico di rammarico: “problemi sull’insegnamento non ci sono. A me dispiace perché la Federico II secondo me ha dei professori che sono tra i migliori in Italia, però ha una struttura talmente scarsa che le fa perdere punti rispetto a università meno prestigiose”. Proprio la qualità della didattica, a suo avviso, può creare non poche difficoltà a chi ha già traballato alla prova di ammissione: “i ricorsisti non si rendono conto che Medicina non è l’Eden. Se non hai le capacità, non vai avanti. Il test è la cosa più facile. Gli esami sono molto più difficili. Non credo che possa andare avanti chi non ha passato la prova perché magari ha fatto cinque o dieci punti”. Questa è l’atmosfera che si respira all’edificio 20. Spostarsi altrove serve a poco, almeno secondo Gennaro, che frequenta il Policlinico da due anni: “è una situazione insostenibile. Ne ho provate di tutti i colori. Sono andato all’edificio 1, a Biotecnologie, all’aula H e così via. C’è precarietà, quindi ci si regola di conseguenza occupando il posto con un foglio, un libro o un giubbino. Io abito anche abbastanza lontano dal Policlinico, quindi per me fare un viaggio di due ore e pensare di studiare il pomeriggio diventa complesso”. Ancora più drastica è la sua collega Benedetta: “siamo nel degrado totale. Le aule sono senza banchi. C’è chi ha comprato tavolini dai falegnami. Io mi sono rifiutata di farlo, perché pago le tasse per averli. I bagni sono indescrivibili. A volte non ci vado. L’igiene è pari a zero. È grave perché qui non si parla solo di università, questo è anche un ospedale”. Eppure, molti preferiscono rimanere qui. Il motivo è svelato da Antonio Moscato, studente del quarto anno: “l’edificio 20 chiude tardi. Altrove, per le 18, bisogna andare via e, per chi sta sotto esame, questo è difficile”.
Ciro Baldini
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