“È un impegno severo”

Istituito circa due mesi fa per aiutare il Governo ad operare le scelte giuste e necessarie a fronteggiare l’emergenza sanitaria, il Comitato tecnico scientifico guidato da Angelo Borrelli, il capo della Protezione Civile, è composto da medici, anestesisti, rianimatori, epidemiologi, esponenti dell’Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Superiore di Sanità. Recentemente è stato rafforzato dall’ingresso di nuovi componenti. Uno di essi è una docente della Federico II. Si chiama Rosa Marina Melillo, ordinario di Patologia generale al Dipartimento di Medicina molecolare e Biotecnologie mediche e ricercatore associato al Cnr. Come è maturato il suo incarico? “Mi ha contattato direttamente Borrelli. Credo di essere stata segnalata da una persona che sta in Parlamento, un senatore. È una mia vecchia conoscenza, mi stima e mi chiese se volevo inviare un curriculum al capo della Protezione civile nell’ottica di un allargamento della squadra di esperti. Borrelli ritiene che in questa fase occorrano, oltre ai medici impegnati in prima linea, i ricercatori, gli scienziati puri. Ho inviato il curriculum, anche con una certa leggerezza, e per due settimane non ne ho saputo più nulla. Sono stata immersa in altre vicende, tra lezioni ed esami online ed attività di laboratorio da riprendere. Ero appunto in studio a preparare le lezioni quando ho ricevuto la telefonata del capo della Protezione civile il quale mi ha chiesto la disponibilità. Non mi sono sottratta in una fase così delicata. Nasco come oncologa molecolare, insegno Immunologia e negli ultimi tempi mi sono molto interessata anche di immunologia dei tumori. C’è una parte della malattia Covid che riguarda il nostro sistema immunitario e che forse richiede qualche approfondimento più specifico”. Quali sono i compiti del Comitato tecnico scientifico? “Svolge attività consultiva. Esprime pareri che poi, naturalmente, possono essere recepiti in toto o in parte dal decisore politico al quale spetta la scelta finale”. Ha già iniziato a lavorare? “Sì. Già il giorno dopo l’assenso, anche se l’incarico non era stato perfezionato in tutti i passaggi formali, Borrelli mi ha chiesto di iniziare a partecipare. Le riunioni si svolgono praticamente ogni pomeriggio dalle 15.00 alle 18.00 in via telematica. O meglio, il Comitato si tiene a Roma, nella sede della Protezione civile, ma per ovvi motivi molti di noi partecipano da remoto. È un impegno severo. I ritmi sono serrati e l’ordine del giorno è noto solo poco prima che inizi la riunione. Bisogna fare una corsa contro il tempo per mettersi al passo e, soprattutto, bisogna essere sempre pronti alle esigenze che si presentino”. Su cosa discute in questi giorni il Comitato di esperti del quale lei fa parte? “Ho firmato un accordo di riservatezza ma alcune cose posso dirle senza problemi. Soprattutto siamo impegnati nella definizione delle modalità della riapertura. Per esempio relativamente allo sport ed ai centri estivi per i bimbi. Formuliamo pareri sulle modalità che, secondo noi, sono più opportune per riaprire e portare avanti certe attività. Anche le elezioni regionali, per dirne una. Insomma, problemi molto pratici. Ci siamo confrontati, tra l’altro, sulla questione dei bimbi. Sono stati un po’ marginalizzati ed hanno avuto un danno enorme perché non vanno a scuola e sono stati privati per due mesi di socialità. Anche gli adolescenti hanno patito molto la situazione della chiusura, con il rischio che l’isolamento potesse innescare anche problemi psicologici. Abbiamo dunque discusso su come recuperare spazi di socialità per i bambini e gli adolescenti senza, però, mettere a rischio la salute”.
Apertura sì, ma con cautela
Perdoni la banale semplificazione. Lei è ottimista o pessimista relativamente ai prossimi mesi? L’emergenza è alle spalle o rischiamo una seconda ondata? “Ci possiamo permettere ora un cauto ottimismo perché i numeri ci dicono che il contagio si sta lentamente spegnendo. In alcune regioni, la Campania tra esse, i dati sono più incoraggianti che altrove, forse per motivi ambientali, forse perché, avendo avuto l’esempio della Lombardia e del Veneto, abbiamo alzato in anticipo le dovute barriere di prevenzione del contagio. Ciò detto, sono per una cauta apertura. Cauta perché non ci sono dati pregressi ai quali affidarsi. Nessuno oggi è in grado di dire con sicurezza se il coronavirus tornerà o non tornerà. Non possiamo che essere prudenti in questa fase e per questo apertura sì, ma con cautela. Bisogna riaprire e prepararsi ad una eventualità malaugurata di una ondata di ritorno. Se dovesse accadere, rispetto ai mesi scorsi avremmo alcuni punti di forza. Sappiamo curare meglio che all’inizio questa malattia, riconoscerla più efficacemente ed abbiamo più terapie intensive”. Cosa può insegnare una simile tragedia ai decisori politici? “Uno dei pochi aspetti positivi è che ci si è resi conto dell’importanza di un sistema sanitario pubblico. La Sanità ha subito un po’ troppi tagli. Uno Stato civile senza una Sanità come si deve ed una Scuola come si deve non ha futuro. La pandemia ha fatto sì che ci si rendesse conto che non si può andare avanti con un sistema sanitario con pochi medici, pochi specializzandi, insufficienti posti letto in terapia intensiva. Abbiamo dovuto richiamare medici in pensione. È un messaggio, quello di questa tragedia, che al sud è ancora più forte. Qui la mancanza di adeguate terapie intensive è particolarmente seria. Se fosse arrivata una ondata analoga a quella della Lombardia temo che davvero ci sarebbe stato un disastro immane”. Come concilia didattica, ricerca ed il nuovo impegno? “La didattica si svolge prevalentemente di mattina ed ho quasi finito le lezioni, poi cominceremo con gli esami. Mi posso dedicare con più tempo e concentrazione a questo incarico serrato. Quanto al laboratorio, lo ho affidato a ricercatori senior i quali sono in grado, con un confronto periodico, di portare avanti le attività. Sono fortunata perché ho persone molto brave che mi portino avanti la ricerca e senza le quali in questo momento avrei difficoltà. Accolgo anche per questo con piacere la notizia dei nuovi fondi per i ricercatori che arriveranno. Serve un ricambio generazionale perché magari noi ricercatori più anziani cominciamo a fare anche altro ed i laboratori resterebbero sguarniti senza l’ingresso delle nuove leve”.
Fabrizio Geremicca
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