Il male di vivere degli studenti

Diciotto febbraio: un ventiseienne si spara nella sua abitazione, in provincia di Salerno, nel giorno in cui, come aveva detto, sarebbe dovuto andare a Napoli a discutere la sua tesi di laurea in Biologia alla Federico II. Sette dicembre 2017, uno studente di 21 anni, di nazionalità marocchina, si uccide lanciandosi nel vuoto all’interno del campus di Fisciano, dopo una lite furibonda con una sua coetanea, ex fidanzata, che aveva picchiato, secondo le testimonianze di chi aveva assistito alla scena. Maggio 2017: un diciannovenne di Campagna si lancia dal terzo piano della biblioteca dell’Università di Salerno, dove studiava. A gennaio dello scorso anno si era suicidato, sempre lanciandosi nel vuoto in Ateneo, un ragazzo iscritto al Suor Orsola Benincasa. Prima ancora, nel 2013 e nel 2011, erano state due studentesse della Federico II – una iscritta ad Ingegneria, l’altra a Farmacia – ad uccidersi con un salto nel vuoto, ed entrambe avevano scelto di farlo nella Facoltà che frequentavano. Storie diverse, perché differenti sono le biografie dei giovani suicidi, accomunate però dalla circostanza che si trattava di studenti universitari. Ateneapoli ha intervistato su questo tema il professore Dario Grossi, Direttore del Dipartimento di Psicologia dell’Università Vanvitelli, dove insegna Neuropsicologia.
“Derubati della 
speranza” nel futuro
C’è un incremento di casi di suicidio tra gli universitari negli ultimi anni rispetto al passato?
“Non ho dati sotto mano, ma la sensazione – anche alla luce delle notizie che sono state riportate dai giornali – è che sia così”. 
C’è un filo rosso che accomuna la decisione dei giovani universitari di togliersi la vita?
“Naturalmente non si può generalizzare, perché ogni storia è a sé e io non le conosco certamente tutte. Quello che non ho problemi a dire è che gli universitari, o almeno moltissimi universitari, oggi soffrono perché si prospetta loro un futuro nullo. Sono stati derubati della speranza di un progetto di vita e questa è una responsabilità terribile della società nella quale viviamo”. 
Perché ‘derubati’ professore?
“Quando tanti giovani che incontro in Ateneo mi chiedono che cosa faranno dopo gli studi universitari, io non sono in grado di dare loro una risposta. Non posso perché, rispetto alla mia generazione ed a quelle immediatamente successive, per le quali la laurea era una certezza di trovare un lavoro soddisfacente, i neolaureati oggi non hanno prospettive decenti. Mi riferisco, in particolare, a quelli di alcuni Corsi di Studio”. 
È certamente una situazione che crea ansia, sofferenza e preoccupazione, ma basta questo ad indurre un ragazzo a togliersi la vita?
“Certamente no. Concorre, ma non basta. Per spiegare come mai aumentino i suicidi tra i giovani universitari, io credo che dobbiamo considerare anche la difficoltà che sempre più giovani hanno a darsi una identità. Chi sono io è una domanda che i ventenni si pongono da sempre. Oggi tanti di essi trovano sempre più difficile rispondere”. 
L’assenza di modelli
di riferimento
Perché?
“Non hanno modelli ai quali fare riferimento per imitarli o per contrapporvisi. C’è il vuoto ed il vuoto non è mai una buona cosa. Non riescono a trasmetterli loro i genitori, perché spesso non ne hanno, e quelli che trasmette loro la società – la felicità come consumo e ricchezza – sono irraggiungibili per gran parte dei ragazzi che frequentano l’università”.
Ritiene che gli insuccessi nel percorso di studio, l’ansia legata alla difficoltà di superare gli esami, i ritardi accumulati possano concorrere ad indurre ragazzi particolarmente fragili a suicidarsi?
“Spesso gli insuccessi universitari più che la causa sono l’effetto di una situazione di malessere. Non studiano, non superano gli esami perché non stanno bene, non sono motivati, non riescono a vedere la prospettiva di quel che fanno ed a trovare interesse in quello che studiano. Gli insuccessi universitari, a loro volta, acuiscono il malessere e si innesca un circolo vizioso”. 
Esistono segnali premonitori, campanelli di allarme?
“Un genitore ed un educatore che vedano una ragazza ed un ragazzo profondamente apatici, disinteressati verso ogni aspetto della vita, devono drizzare le antenne e cercare occasione di parlare con il giovane. Allo stesso modo il ricorrere di discorsi sulla morte può essere un indicatore da tenere presente. Naturalmente, si badi bene, non è che ogni ragazzo che attraversa una fase di apatia sta pensando di suicidarsi o che chiunque parli della sua morte poi si toglierà la vita. È, però, un ragazzo che sta dichiarando il suo vuoto e va seguito con attenzione”.
L’Università fa abbastanza per stare vicina agli studenti che attraversano una fase di profondo malessere psichico?
“No, non fa abbastanza. Abbiamo per obbligo il servizio di sostegno psicologico agli studenti, ma dovrebbe essere pubblicizzato e sostenuto economicamente molto di più di quanto accada ora e l’attività dovrebbe andare molto al di là del semplice aiuto allo studente a superare l’esame.  Pochi vengono oggi. Dovrebbero essere potenziati e migliorati anche i servizi di placement, perché se un ragazzo sa che dopo anni di studio gli si prospetta un futuro nullo o quasi, ecco che riemerge il vuoto. A che scopo – si chiederà – mi impegno? Cosa sto facendo? Sono domande alle quali oggi rispondere è complicato. Questa circostanza in presenza di altri fattori critici, legati alle storie personali e familiari, può determinare un malessere molto profondo. Se togliamo la progettualità, la speranza nel futuro, ad un giovane che magari ha problemi di identità personale e non è stato educato alle emozioni – la cosiddetta educazione sentimentale per imparare a riconoscere i propri ed altrui stati di animo – induciamo una inevitabile forte sofferenza. In casi estremi, ripeto estremi, questo può portare un giovane universitario a ritenere la morte come una soluzione”.
Accendere una 
passione per 
colmare il vuoto
Sono tutti depressi, nel senso clinico del termine, gli universitari che si suicidano?
“No. Certamente la depressione, quella seria, è un elemento di rischio che può indurre anche al suicidio ed infatti va riconosciuta, trattata e gestita con gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione. Non tutti i suicidi, però, hanno alle spalle una storia di depressione”.
Ha incontrato nella sua attività studenti che hanno manifestato intenti suicidi?
“Sì. Ricordo in particolare una studentessa – non ricordo se frequentava Economia o Scienze Politiche – con una idea ossessiva circa la problematica del tentativo di suicidio. Espresse con un ragionamento estremamente lucido la sua situazione: famiglia sbrindellata, prospettive post lauream scarse, impossibilità di realizzare nella vita quello che avrebbe desiderato. Unica soluzione per lei, diceva, la morte”. 
Cosa le ha risposto?
“Le ho detto che il vuoto è relativo al fatto che non si cerca una prospettiva e si può superare accendendo una passione: la musica, lo sport, la natura, la lettura, gli animali, la pittura. I mille colori della vita che possono accendere un entusiasmo”. 
Fabrizio Geremicca
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