Il populismo? La malattia senile della democrazia

“Per comprendere adeguatamente chi sia un populista, si consideri la metafora dell’invitato screanzato ad un dinner party: un ospite sgradevole che non rispetta le buone maniere a tavola, tenta di flirtare fastidiosamente con le mogli degli altri ospiti e che, in preda ai fumi dell’alcool, inveisce brutamente contro la democrazia, risaltandone la precaria tenuta”. Con questo incipit ha esordito il prof. Marco Revelli, titolare delle cattedre di Scienza della politica, Sistemi Politici e Amministrativi Comparati e Teorie dell’Amministrazione e Politiche Pubbliche presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale ‘Amedeo Avogadro’, nell’ambito del ciclo di incontri promossi dalla Vanvitelli “Dialoghi oltre le due culture”. Il celebre storico, sociologo e politologo è stato accolto, il 2 febbraio, presso l’Aulario di Santa Maria Capua Vetere, dal Rettore Giuseppe Paolisso, dai Direttori di Dipartimento di Giurisprudenza e Lettere e Beni Culturali Lorenzo Chieffi e Maria Luisa Chirico. Al cospetto di una affollata platea composta da docenti, studenti universitari e liceali, ha disquisito su una tematica di palpitante attualità: il populismo. Un fenomeno che Revelli definisce, nel suo ultimo libro, la malattia senile della democrazia, il sintomo di una crisi di rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. La sindrome populista è, dunque, il portato di un deficit di rappresentanza: la sua insorgenza segna la frattura della cinghia di trasmissione tra politica e popolo. Revelli ha sottolineato come la deriva populista sia capace di abbassare il livello culturale e civile della partecipazione democratica, di avvilire le energie virtuose del consorzio sociale, erodendo il sentimento di civismo e divenendo una manifestazione quasi caricaturale della democrazia. Il populismo non esprime un’ideologia politica, bensì un mood, uno stato d’animo di disaffezione parossistica verso le rappresentanze politiche giudicate ree di aver tradito i loro elettori e, pertanto, si afferma una tensione ad un radicale rinnovamento che possa di sana pianta spazzare via una deludente stagione politica. La logica populista sembra concepire la società suddivisa in due tronconi: il popolo ed una sparuta cerchia oligarchica che non accenna a smettere di vessare il primo, a tal punto da indurlo a carezzare propositi rivoluzionari. “È opportuno segnalare come il populismo esprima ontologicamente due pulsioni ben precise: una spinta antioligarchica ed una spinta antipluralista; cioè, il popolo di cui il populista ha inteso farsi paladino – ha spiegato Revelli – è concepito come un’entità indifferenziata, omogenea, senza essere solcato da alcuna distinzione ideologica e di interesse, rifiutando il classico distinguo politico tra destra e sinistra”. Nell’ottica del populista, la sovranità deve essere esercitata non più per il tramite del circuito istituzionale rappresentativo ma da una figura carismatica che, con le sue doti di leadership, sappia infondere sentimenti rassicuranti circa la capacità di realizzare la frustrata volontà popolare. Ciò spiega perché tendenzialmente il populista faccia esercizio di un linguaggio rivoluzionario: le forme espressive divengono un efficace strumento per diffondere una volontà di rovesciamento dell’ordine costituito. Il populismo per attecchire e dilagare necessita di un contesto particolare, di una congiuntura anomala contrassegnata da un’acuta crisi delle istituzioni rappresentative cui consegue la fioritura di un generalizzato e pregiudiziale sentimento di sfiducia verso la classe dirigente. “Il motto del populista – ha evidenziato il sociologo – si può compendiare con le seguenti interiezioni: ‘facciamoli fuori tutti’, ‘sbarazziamoci del ceto politico corrotto!’”. Senza una crisi del sistema politico, il populismo rimane privo del proprio habitat naturale. Populista è chi sulla base di visione totalizzante del popolo, come entità indifferenziata, ne immagina un trasferimento diretto nella stanza dei bottoni. È il popolo che governa. Tuttavia non è plausibile che milioni di persone possano avere potere decisionale; ergo, le funzioni di governo devono eessere riconosciute ad un capo carismatico che incarni compiutamente l’idem sentire del popolo che rappresenta. In questo modo, la complessità delle democrazie moderne viene ridotta e semplificata. “Il populismo tende a semplificare il meccanismo complesso della democrazia attraverso la scure della personalizzazione del potere”, ha chiosato Revelli. Non bisogna ritenere che il populismo attecchisca solo presso le classi indigenti. Chi è sensibile a questo fenomeno esprime non un semplice voto di protesta ma di vendetta, una condanna per un ceto politico che ha disatteso il mandato elettorale e che viene demonizzato per la sua infedeltà. Dunque, il populismo investe quanti si sentano deprivati di qualcosa o avvertano la sensazione di essere stati abbandonati da chi doveva nelle sedi decisionali propugnare i loro interessi. La deriva populista origina dalla combinazione di tre matrici causali: la crisi strutturale della democrazia che non è provocata dalla sola globalizzazione, cioè da un processo tecnico-economico che ha modificato lo spazio sociale ma anche – e soprattutto – dalla strutturazione dei meccanismi di governo, dal modo di gestire i processi decisionali. La democrazia rappresentativa è entrata in crisi, in buona misura, perché la sede delle decisioni fondamentali per il popolo è emigrata in ambiti inaccessibili al demos e che sfuggono al controllo elettorale – si pensi, in particolare, al tenebroso mondo della finanza – con il governo che si limita a farsi pedissequo portavoce di decisioni assunte altrove. La crisi dei partiti politici che non sono più capaci di esprimere delle ideologie attorno cui coagularsi e di rappresentare un raccordo comunicativo tra la società e le istituzioni. Il terzo fattore causale è espresso dalla crisi economico-sociale che imperversa dal 2007. Alla domanda su quale sia la soluzione per eludere l’invalere di logiche populiste, Revelli non ha dubbi: “È necessario svelenire i serbatoi di rancore che serpeggiano nel tessuto sociale e tonificare il meccanismo rappresentativo, con una maggiore attenzione delle istituzioni alle istanze del demos”.
Giovanni Lanzante 
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